Autore ed editore, Manuel Olivares vive da circa dieci anni buona parte del suo tempo in Asia (soprattutto tra India e Thailandia). Qui le sue riflessioni e considerazioni affatto scontate.
Ciao Manuel, ti va di spiegarci in due parole chi sei e cosa fai?
Ho 44 anni e, al momento, mi occupo soprattutto di dirigere la Viverealtrimenti Editrice. Vivo la maggiorparte del tempo fuori dall’Italia e dall’Europa, tra Chiang Mai (nella Thailandia del nord) e Varanasi (India del nord, a metà strada tra Nuova Delhi e Calcutta).
Parlaci della tua casa editrice. Qual è la filosofia che la caratterizza e da dove è nata l’idea di chiamarla Viverealtrimenti?
Vivere altrimenti è il titolo di un libro pubblicato (non dalla mia editrice, beninteso, se non sbaglio l’ha edito Il Manifesto) diversi anni fa, sulle comunità intenzionali e gli ecovillaggi in Italia. Il titolo mi piacque molto dunque, anni dopo averlo letto, quando ho deciso di creare una mia casa editrice ho pensato di chiamarla allo stesso modo. In generale, la filosofia della Viverealtrimenti è proporre libri per un diverso stile di vita, offrire maggiore spazio a quanto accade nel mondo meno raccontato dai media del mainstream, documentare e mettere in rete il maggior numero possibile di esperienze di vita non ordinaria, “altra”. Nei migliori auspici, la Viverealtrimenti vuole contribuire a quel processo per cui quanto è oggi prerogativa di pionieri diventi – grazie a una buona capacità divulgativa – qualcosa di maggiormente conosciuto, socialmente accettato e condiviso domani. Naturalmente si parte dal presupposto che non tutto ciò che è oggi pionieristico meriti di essere sdoganato. Non tutto ciò che è “strano” interessa la Viverealtrimenti ma ciò che, pur apparendo come inconsueto, abbia, dal nostro punto di vista, un intrinseco valore.
Ti sei sempre interessato, professionalmente e umanamente, al fenomeno comunitario e non credo sia un caso che uno dei libri più famosi di Viverealtrimenti sia proprio Comuni, comunità, ecovillaggi, di cui non solo sei editore ma anche autore. Per documentarti hai fatto diverse esperienze comunitarie, quanto sono state importanti per la tua crescita personale?
Sono state sicuramente un passaggio importante anche se non ho mai vissuto in realtà comunitarie per un periodo superiore a 3 mesi. Per me il mondo comunitario non ha rappresentato e non rappresenta una scelta di vita o di militanza ma una dimensione che ho amato e amo documentare.
L’esperienza comunitaria che, a suo tempo, ormai più di quindici anni fa, mi ha maggiormente segnato è stata quella elfica. L‘incontro con gli elfi è stato cruciale, ne ho apprezzato, allora, la radicalità, la genuinità, il riappropriamento di memorie antiche, legate alla dimensione tribale e al rapporto simbiotico con la natura. Sono stato dagli elfi per quasi venti giorni, a ridosso della mia laurea, svuotandomi la testa da quel mare di nozioni con cui l‘avevo dovuta riempire. Tornato nel mondo ordinario, ero confuso, insofferente, mi sembrava di aver perso un’antica pace interiore, un senso di compiutezza che con loro avevo inaspettatamente ritrovato. Avevo pensato, per un attimo, di trasferirmi, in realtà sono tornato diverse volte, soprattutto nel villaggio di Avalon, ho iniziato contestualmente a visitare altre realtà comunitarie, in alcuni casi a trattenermi più dei pochi giorni della visita canonica e, forse catarticamente, a scriverne…rimanendo, oggi lo dico senza rimpianti (anche se in India si puo’ dire che viva in un piccolo cohousing), nel mondo ordinario.
Restiamo un attimo sul tema. Le comuni esistono da sempre ma ultimamente il fenomeno sembra vivere una seconda giovinezza, Italia compresa, dove sempre più ecovillaggi tentano di dare una risposta concreta ai problemi di una società che appare sempre più disumana e sempre meno ecosostenibile. Come reputi a distanza di anni dalla stesura di Comuni, comunità, ecovillaggi questi esperimenti comunitari? Ritieni che possano ancora costituire una valida alternativa alla società “tradizionale”?
Di esperimenti comunitari ce ne sono molti e alquanto diversi tra loro, dunque, in linea generale, credo che la migliore risposta sia: “dipende”. Io credo senz’altro che una dimensione di vita su piccola scala, in un contesto naturale, lontano dall’alienzione metropolitana (di cui so qualcosa, avendo vissuto circa trentacinque anni a Roma) possa essere altamente desiderabile. L’alternativa non deve essere, strettamente, la vita in un ecovillaggio. Personalmente sono dieci anni che, quando sono in Italia, vivo in un paese di circa ottomila abitanti in provincia di Viterbo e sono molto felice di questa situazione, sento che mi nutre, mi rafforza, mi fa stare bene, al contrario della città che pur frequento con una certa regolarità. È facile rendersi conto quanto in Italia abbiamo un patrimonio inestimabile di comuni di piccole dimensioni, oggi spesso in stato di semi-abbandono. Parlando della mia regione, il Lazio, pullula letteralmente di paesi in cui i romani, nei tempi oramai passati in cui giravano più soldi, si sono comprati la seconda casa ma che vivono quasi solo d‘estate, altrimenti sono in buona misura abbandonati a se stessi e a pochi anziani sopravvissuti. Qualcosa o più di qualcosa si sta già muovendo in questa direzione e io auspico davvero che cresca e si rinforzi un movimento di riappropriazione dei borghi, alcuni dei quali naturalmente si sono già prestati e ben si prestano alla creazione di comunità intenzionali ed ecovillaggi. Con le possibilità che offrono oggi le tecnologie, un numero crescente di persone può trasferirsi in contesti di vita più umani, avendo come riferimento altre persone che, nelle vicinanze, abbiano fatto una scelta simile – come singoli, come famiglie o nuclei comunitari più o meno “formalizzati” – vivendo e valorizzando assieme il territorio attraverso i criteri di quello che un tempo si chiamava “mutuo appoggio” ed oggi risponde bene alla definizione di “economia solidale”.
Sicuramente vivere in un borgo o in campagna ha costi inferiori rispetto alla città e questo è, senz‘altro, già un punto a favore. A fronte di questo è, naturalmente, essenziale garantire la sostenibilità economica di una scelta del genere. Sicuramente già il fatto che oggi molto più di ieri si possa lavorare da casa, con il proprio computer, è un altro elemento a favore, poi, naturalmente, ben vengano le piccole cooperative agricole, di trasformazione, l’artigianato e tutta la creatività di cui si può essere capaci per evitare di finire in campagna o in piccoli comuni a fare una vita grama. Valorizzando il fattore-rete credo possa essere possibile.
Mi chiedi se le comunità e gli ecovillaggi possano essere un‘alternativa alla società tradizionale. Da soli non credo perché, da quello che ho avuto modo di vedere (ma su questo può essere senz’altro più interessante il giudizio di comunitari a tempo pieno), vivere in comunità non è da tutti.
Se però includiamo nel “movimento” anche tutti coloro che “simpatizzano” con una scelta del genere pur senza compierla in prima persona e sono ben contenti di avere rapporti costruttivi e, ripeto, di mutuo appoggio con il mondo comunitario (cercando di incoraggiarne le micro-economie, ad esempio avendoli come riferimento di acquisto più dei supermercati), coloro che “potrebbero simpatizzare”, le associazioni (in città e non), i gruppi d’acquisto e tutti coloro che, in generale, tentino l‘approdo ad una dimensione di vita post-materialista e – non “anti”– post-consumista, possiamo già iniziare a parlare di un‘alternativa in fieri alla società tradizionale.
Sappiamo poi bene che chi tira le fila di questa società ha mezzi di controllo sociale ferocemente efficaci e sofisticati, dunque credo sia importante tenere a bada alcune ingenuità, evitare ad esempio di pensare che si possa cambiare il mondo facendosi il pane in casa (come capita ogni tanto di sentire).
Il mondo, chi lo gestisce, lo governa non si fa facilmente cambiare da una rete di ecovillaggi ma, sicuramente, un movimento comunitario nel senso ampio del termine può, nel tempo, rappresentare un modello di vita meno alienato e più sostenibile che può risultare via via più appetibile.
Trascorri la maggior parte del tempo in Asia, soprattutto in India. Che cosa ti ha portato la prima volta in questo Paese e cosa ti spinge a rimanerci?
Il mio primo viaggio in India risale al 1998 e si legava alla tesi di laurea che stavo preparando (su Osho Rajneesh e i neo-sannyasin). Possiamo dire che il motivo che mi ha portato in India si possa inquadrare nel sondare le diverse possibilità di vivere altrimenti. Rimasi in India oltre due mesi, quella prima volta. Fu naturalmente un’esperienza molto coinvolgente e, di nuovo in Italia, ho iniziato presto a pensare di ritornare. Sono ritornato nel 2005, senza pensare di rimanere a lungo ma, dopo una prima ambientazione, ho iniziato a sentire un forte richiamo, la sensazione netta che quel paese meritasse anni per essere assimilato.
Vivendo all’estero si ha spesso la possibilità di avere uno sguardo più lucido e disincantato sul proprio Paese. Che cosa ti manca di più dell’Italia e quale ritieni essere il suo difetto più grande?
Dopo quasi dieci anni di vita in Asia, posso dire che dell’Italia non mi manchi molto anche se, al contrario di altri espatriati, non provo un senso di rifiuto. Vivere in contesti culturali molto diversi dal proprio pone innazitutto un problema di identità. La nostra identità di occidentali, cristiani-secolarizzati, è oramai piuttosto sfilacciata. Credo non ci stiamo rendendo conto di quanto i nostri riferimenti siano oramai del tutto confusi, creando i presupposti di quella che il sociologo Émile Durkheim qualificava come “anomia”: assenza di regole. Assenza di regole chiare nell’etica, nei costumi. Regole che abbiano la funzione di “bussola”. A questo proposito posso raccontarti un piccolo aneddoto. Alcuni anni fa ero all’aereoporto di Calcutta, in attesa di un volo che mi avrebbe portato in Thailandia. Allora vivevo la maggiorparte del mio tempo in India e avevo dei momenti in cui l’aggrovigliato sistema di proibizioni della cultura hindu mi risultava indigesto e avevo bisogno di un paese più leggero. Ero dunque in aereoporto ben contento di partire e mi venne questo pensiero: le tante regole di cui è infarcito il quotidiano indiano, al pari di una bussola, indicano una direzione precisa. Questo non significa che si debba andare, sempre, in quella direzione e, difatti, chi usa la bussola non va sempre a nord ma sa costantemente dove il nord sia.
Ecco, io ho la sensazione netta che in Occidente siamo oggi manchevoli di bussola e dunque procediamo oramai alla cieca, senza nemmeno renderci conto di essere ciechi guidati da altri ciechi.
L’incontro con identità culturali più forti può farci invece, in qualche modo, aprire gli occhi e indurci alla ricerca dei bandoli perduti.
L‘India da sicuramente l’opportunità di confrontarsi con identità culturali molto forti e, per quanto attiene alla mia esperienza, questo confronto avviene, naturalmente, con gli hindu ma è senz’altro più arricchente se avviene anche con l‘altra anima importante del paese, quella musulmana.
Rivedere la propria identità da una “prospettiva indiana” può essere disorientante ma ti posso dire che io non ho perso un momento la memoria del mio background europeo. Sappiamo che non mancano quelle persone che, arrivate in India, iniziano a sentirsi improvvisamente hindu e a tentare di scimmiottare gli hindu e le loro enfasi rituali in maniera a mio modo di vedere grottesca. Perché l‘identità è qualcosa di troppo profondo e fondante perché possa essere cambiata come un paio di calze. Si parla addirittura di inconscio culturale, che nel nostro caso è, ripeto, cristiano-secolare e, come tale, potrà difficilmente accettare alcune cose (ad esempio la noncuranza di fronte alle sofferenze altrui) che invece per un indiano – abituato a vivere in un paese dove, tra i tanti aspetti che lo caratterizzano, ci sono ancora circa 180 milioni di intoccabili – sono “relativamente normali”.
Dunque io ho osservato la mia identità non vacillare sui suoi cardini, in questi anni di vita in Asia ma, allo stesso tempo, l’ho vista, in diversi modi, trasformarsi perché se è vero che vivendo in India o in Thailandia non si diventa hindu o thai, è anche vero che alcuni dei parametri dei paesi in cui vivi iniziano ad esserti sempre più famigliari, creando i presupposti per un‘identità di giorno in giorno più composita. Oggi, credo di essere ancora tanto italiano quanto lo ero quando vivevo in Italia (anche se, senza concedere nulla alla troika e alla BCE, preferisco la definizione “europeo” perché comunque credo che da italiani partecipiamo da secoli a una cultura più ampia della nostra, con alcune omogeneità di fondo) ma, allo stesso tempo, avendo evitato di induizzarmi o di sfuggire alla definizione, se vuoi spietata, di farang (straniero) in Thailandia, credo sia giusto parlare di un’identità cosmopolita. Difatti mi è oramai abbastanza chiaro che le mie valutazione, i miei criteri di giudizio oltre a diversi aspetti della mia vita pratica, ad esempio culinari o legati all’igiene personale, siano in parte debitori alle culture altre in cui ho vissuto e in cui vivo. Da questa prospettiva, quello che considero essere un problema grave dell‘Italia è il provincialismo, quell’alterigia culturale che molti attribuiscono all‘India che però è sempre stato un paese multietnico, pluriconfessionale, dove camminando per strada senti il suono delle campane dai templi hindu ed il richiamo alla preghiera dalle moschee.
Credo noi italiani non ci rendiamo facilmente conto quanto siamo fossilizzati nelle nostre abitudini, nei nostri schemi, ritenendoli presuntuosamente superiori perché, non di rado, raffinati. Siamo tra i peggiori conoscitori delle lingue straniere, abbiamo in molti casi un inglese penoso, siamo profondamente ignoranti delle religioni altrui (avendo in molti casi un rifiuto pregiudiziale della religione in quanto tale) e, in tutto questo, credo che una buona responsabilità la abbiano i nostri media dove c‘è sicuramente un eccesso di attenzione rispetto a quanto succede a casa nostra, dove ci si sofferma morbosamente su quanto ha detto, di banale, un politico di un altro, su quello che, esattamente, l’altro abbia risposto trascurando che, nel frattempo, nel resto del mondo stanno succedendo cose che varrebbe la pena di sapere o di approfondire.
Vivendo all’estero un passaggio importante è, ad esempio, leggere i quotidiani e le riviste locali in inglese. Ho trovato buoni quotidiani in inglese anche in paesi periferici in Asia (ad esempio il Nepal, dove è possibile leggere il Kathmandu Post, in Sri Lanka, in Cambogia, in Laos), per non parlare della ricchezza della stampa indiana cui non si avvicina nemmeno quella thailandese, pur avendo la Thailandia due importanti quotidiani in inglese: il Bangkok Post e The Nation.
Sto notando che abituandomi alla stampa internazionale (in India e in Thailandia si trova non difficilmente The Economist che è considerata la migliore rivista internazionale di economia, politica, attualità ed è diviso in sezioni “continentali”, dunque vi si trovano notizie, dossier su ogni area del mondo), la lettura della stampa italiana mi riporta in una dimensione culturale angusta, per la quale provo una certa insofferenza.
Dunque credo il provincialismo sia un primo fattore di cui, come italiani, è bene essere maggiormente consapevoli poi si potrebbe continuare a parlare per ore su altri difetti o pregi o limiti del nostro paese ma non vorrei abusare della pazienza di chi ci legge.
L’Italia sta vivendo una seconda ondata di emigrazione dopo quella che vide, tra fine Ottocento e inizio Novecento, milioni di nostri connazionali lasciare il Paese per cercare fortuna oltreoceano. Tu stesso hai abbandonato l’Italia diversi anni fa. Cosa spinge secondo te, oggi, così tanti giovani a partire? Ci sono naturalmente ragioni economiche alla base di questa scelta, ma l’impressione è che il motivo sia più profondo.
Senz‘altro credo ci sia il bisogno di vedere un po’ di mondo perché il senso di angustia che si prova in Italia credo sia percepibile da diverse persone. Sappiamo poi bene che l’Italia non è un paese “meritocratico”, non è un paese dove sia facile avere una propria, indipendente, attività, è un‘economia che probabilmente beneficerebbe di un maggiore dinamismo che tutti auspicano ma che mai arriva. Una volta, su un articolo su Le Monde, lessi una definizione dell’Italia che, a mio parere, risponde abbastanza a verità: paese anchilosato.
Sarebbe lungo considerare i perché e i percome di questa disgrazia che è probabilmente alla base di un desiderio di fuga che mi sembra sia diventato un po’ epidemico nel nostro paese.
Sempre più persone abbandonano, probabilmente anche per costrizione, l’idea del posto fisso per diventare nomadi digitali e lavorare in giro per il mondo. Tu sei, di fatto, nomade digitale da tanto tempo, ti riconosci in questo nuovo fenomeno migratorio?
Sì, abbastanza. Credo sia un bel fenomeno post-moderno e credo possa anche fare il paio con il desiderio di vivere altrimenti in comunità ed ecovillaggi, per riprendere il filo del discorso precedente. Credo in altre parole che i due movimenti, deep-ecologico l’uno ed esistenzialista-nomadico l’altro possano trovare diversi spazi di dialogo. Si può essere nomadi digitali in giro per il mondo o/e in comunità intenzionali ed ecovillaggi a loro volta inseriti in reti di economia solidale.
Sì, con il nomadismo digitale navighiamo in pieno contemporaneo, può essere un antidoto al paese anchilosato, fermo restando che io non ho ancora perso la speranza che in un modo o nell’altro si arrivi a superarla questa anchilosatezza. Sarebbe bello ritornare in Italia ritrovandovi persone relativamente serene, relativamente padrone della propria, pur non pretenziosa ma genuina, esistenza.
Oltre a essere editore sei anche uno scrittore con all’attivo diversi saggi e romanzi. Stai lavorando a qualcosa in questo momento?
Sì, sto lavorando a un libro sugli anni in cui, secondo alcuni, Gesù avrebbe vissuto in India. È una storia affascinante ma molto lunga e articolata e non voglio, nuovamente, abusare della pazienza di chi ci legge. Segnalo la seguente pagina facebook per chi volesse iniziare a sapere qualcosa di più sull‘argomento. Ho anche in preparazione un articolo per i nostri partner di Altrimenti.net che verrà, a momento debito, segnalato sulla stessa pagina che funge, oramai, da ricco database,
Qualcuno dice che per conoscere il proprio talento bisognerebbe ripensare a quali sogni avevamo da bambini, a cosa desideravamo diventare. Guardandoti indietro quanto pensi di esserti avvicinato al “tuo” sogno?
Penso di averlo, naturalmente in maniera solo parziale, realizzato. Mi capita spesso di pensare: la vita che sto facendo è quella che volevo. Dunque sono soddisfatto della mia scelta anche se non mancano i problemi, naturalmente, bisogna esserci tagliati o, chissà, forse “costretti”, da un carattere “difficile”, da “difficoltà adattive”, tanto per non cedere a tentazioni vanagloriose…
Dove e come ti vedi tra dieci anni?
Qui lo dico e qui lo nego: sto coltivando l’idea di “un’uscita dal mondo”, per usare un termine che da il titolo a un bel libro di Elémire Zolla. Sento che il desiderio inconscio che ha guidato i miei passi in questi anni, di cui ho scritto nella mia raccolta Barboni sì ma in casa propria, sia quello di conoscere il mondo per poi, in qualche modo, trascenderlo.
Non ho la pretesa di cambiarlo anche se in passato sono stato una di quelle persone che ha provato a coltivarla, non per qualunquismo ma per rispetto intellettuale della sua enorme complessità. L’istanza che mi muove è più di natura squisitamente conoscitiva e, in fondo, sento che la conoscenza del mondo voglia in realtà rappresentare la conferma che non valga la pena farsene condizionare, che la “salvezza” sia altrove o, meglio, sia “oltre”.
Sento, in altre parole, che l’istanza sia: conoscere il mondo per giungere ad esserne vieppiù disilluso e “superarlo” senza rimpianti.
La dimensione di questo superamento è uno stato di coscienza che sia disidentificato dalle miserie del contingente e si avvicini progressivamente al concetto buddhista di equanimità. Dunque mi piace pensare che nei prossimi anni mi vorrò dedicare a questa “uscita” che potrebbe essere “radicale” (ho pensato, ad esempio, a un’esperienza monastica in ambito buddhista, per quanto al momento la veda ancora piuttosto lontana) o semplicemente un altro modo di vivere posti in cui sto già vivendo, senza cesure vistose. Un mio sogno romantico, che coltivo da anni, è un ritiro sull‘Himalaya (all’Himalaya mi piacerebbe dedicare un prossimo libro), seguendo il monito di Ananda Coomaraswamy: le grande imprese si compiono quando uomini e montagne si incontrano, non si compiono certo facendo a gomitate nelle strade. L’Himalaya, il Kashmir in particolare, è secondo alcuni il posto dove si sarebbe ritirato Gesù, sopravvissuto alla crocifissione, dove secondo altri avrebbe anche fondato un ashram.
Mi piace l‘idea di quest’uomo che dopo aver dato semi di profondo cambiamento all’umanità (il grande Fabrizio De André diceva, a mio parere giustamente, che Gesù è stato il più grande rivoluzionario della storia) si è ritirato per la sua ultima grande impresa, incontrando le montagne…e la pace ultima. Avrebbe vissuto in Kashmir i suoi ultimi anni, con una pastorella, Myriam, da cui avrebbe avuto una discendenza. A Srinagar esiste ancora una famiglia, riconosciuta da molti, in città, come discendente da Gesù. L‘ultimo esponente che ha conservato la memoria storica di questa discendenza e un albero genealogico, S. Basharat Saleem, noto per le doti di guaritore, è morto alcuni anni fa ma ho avuto modo di conoscere il figlio e di apprezzarne il distaccato, placido carisma.
Qui naturalmente non si vogliono vendere verità o rivelazioni un tanto al chilo e difatti il libro che sto scrivendo si intitolerà Gesù in India? Il punto interrogativo vuole avere una cruciale importanza ma trovo che certe storie vadano approfondite e raccontate, lasciando naturalmente a ciascuno la libertà di credere o meno.
Dopo averle raccontate, forse sarebbe il caso di tentare, a nostra volta, con i nostri limiti, di viverle, trovando il coraggio di uscire dai gorghi più stritolanti del samsara e tentando di seguire le orme dei grandi maestri. Fra dieci anni, dunque, spero davvero di potermi permettere un‘uscita dal mondo, “inshallah”!