CINA: Nel corso degli ultimi 12 anni anni abbiamo assistito numerose aziende europee che si sono rivolte ai nostri professionisti per provare a fare qualcosa di buono in Cina. Non vogliamo parlare di francesi e di tedeschi. Ma di imprese italiane. Parliamo di un campione di circa 300 aziende che abbiamo conosciuto nel corso degli anni e con alcune delle quali abbiamo lavorato, dalle piccolissime, alle grandi. Negli anni ’90, l’idea era sempre quella di produrre a basso costo, delocalizzare dunque la manifattura e riesporate interamente nei propri specifici mercati. Successivamente il connubio “produzione locale – vendita locale” si fatto più forte. Oggi, in svariati settori, siamo arrivati a produrre in Cina per il mercato cinese o ad investire in Cina in reti di distribuzione per vendere un prodotto manufatto all’estero. Le formule stanno diventando piu’ articolate. Possiamo parlare di prodotti e non di servizi, perchè come tradizione, nell’export di servizi in Cina siamo purtroppo gli ultimi in Europa. A parte l’eccellenza di Generali. Siamo gli ultimi come numero di banche e presenza di addetti. Come commercialisti e come avvocati. Come grafici. Forse va un po’ meglio con gli architetti, ma anche qui non reggiamo il passo con i grandi studi internazionali. Durante questo viaggio, che – vissuto dall’estero – ci ha fatto conoscere un pò meglio anche l’Italia, abbiamo incontrato, ci siamo confrontatii ed a volte abbiamo anche avuto profonde divergenze con grandi gruppi, aziende medie, singoli imprenditori, ognuno con la propria idea sulla Cina e sul come affrontarla. Abbiamo ascoltato idee geniali inapplicabili, ci sono stati presentati partner di joint venture da cui fuggire a prima vista, abbiamo intervistato potenziali general manager cinesi che si esprimevano solo in un dialetto locale, incomprensibile ai cinesi stessi. Abbiamo cercato di seguire, ma non sempre assecondare, l’imprenditore ed il manager che ci proponeva un progetto, semplice o ardito, che fosse.Ma, il risultato di questo nostro piccolo-grande campione di imprenditorialità italiana è che alla fine dei conti, l’Italia in Cina si è mossa più o meno, sempre allo stesso modo. Il nostro DNA ha prevalso. E, come tutti, abbiamo fatto molti errori. Magari non gravi come quelli della McDonnell Douglas che si era incaponita nel costruire un aereo in partnership con i cinesi ed alla fine, a secco di finanze, è finita, proprio per le enormi risorse riversate nel “progetto Cina”, ad essere acquisita dalla Boeing. O come la Fiat che, se non avesse “snobbato” alla fine degli anni ’80 la licenza che gli venne offerta da Pechino (tra le prime a venire emesse) – “ci dedichiamo al Sudamerica ed alla Russia” fu più o meno la risposta che venne fornita ai cinesi” – e non avesse lasciato il campo libero a Volkswagen, la storia dell’auto italiana in Cina oggi sarebbe differente. Questo è una caso limite, ma noi italiani alla fine ci siamo comportati – e pr certi versi continuiamo ad operare – sempre allo stesso modo, tra grandi sforzi, grande impegno economico, un pò di folclore nostrano e molta disorganizzazione. Che in Cina non paga. E che non viene scambiata per talento creativo, ma solo per quello che spesso realmente è. Ci sono quindi delle costanti, che abbiamo riscontrato, sebbene in maniera differente, in tutti i gruppi con cui abbiamo operato, senza particolare distinzione tra grandi e piccoli, anche se nei grandi è stato necessario più tempo capire dove, di volta in volta, il meccanismo si inceppava. In questo senso la Cina nei confronti delle aziende italiane è stata molto democratica. Ha trattato tutti allo stesso modo. Vediamo allora, quali sono alcuni fattori che in Cina hanno unito e che hanno reso, forse per la prima volta, omogenee, le imprese italiane, senza distinzione di fatturati, debiti e prodotti. – Il senso del tempo. Una delle prime cose che si comprendono in Cina è che il paese, giusto o sbagliato, ha il suo ritmo. Un incontro, una rapporto, è come un concerto. Solo che noi non siamo i direttori del’orchestra. Siamo un pubblico, che prima di tutto deve ascoltare e comprendere. Se non ti piace l’esecuzone, è difficile intervenire e modificare lo spartito. Al massimo, puoi andartene. In questo senso, noi italiani ormai siamo noti: quando c’è da rallentare, siamo quelli che vogliono accellerare (ed è sempre difficile far capire ad una controparte cinese come mai un contratto che ci dovrebbe legare per i prossimi 20 anni, debba essere firmato in 3 giorni). Quando invece dobbiamo correre, perchè dobbiamo nominare un capo fabbrica, sdoganare dei macchinari, prendere comunque decisioni operative, ci blocchiamo e diventiamo improvvisamente più lenti. Sembra quasi – e questo stranamente succede anche nelle piccole aziende – che siamo quasi piu’ preoccupati del dato formale della conclusione di un contratto, che dai mille aspetti di una operatività complicatissima. Siamo affascinati dall’idea della firma, considerandolo un punto di arrivo. E ancora ci manca la percezione che quello in Cina è solo l’inizio. La fatica di giungere alla conclusione di un accordo, è nulla rispetto ai problemi che inziano il giorno dopo. – Le risorse umane: queste sconosciute. Siamo in una fase in cui tutti vorrebbero comprare, acquisire in Cina. I progetti non mancano e nemmeno i denari. Mancano le persone però. Vediamo aziende italiane che stanno affrontando progetti di acquisizione molto interessanti, che, in prospettiva, potrebbero modificare il futuro del gruppo. Gli elementi, in teoria, ci sarebbero tutti. Un buon partner ed un buon progetto, e soldi per portarlo a termine. Si parte quindi. Ma manca un elemento fondamentale. Chi gestisce il tutto? Manca alla fine sempre il manager, l’amministratore, il dirigente locale. Quello che dovrebbe essere il presupposto di un investimento, diventa sempre l’ultimo elemento ad essere considerato. Ci troviamo quindi a volte con una azienda in mano, ma con una squadra non definita, nelle figure chiave. Spesso è prevalsa la tentazione di riciclare figure prettamemente italiane già presenti in azienda, figli e parenti vari che vengono mandati a fare “un esperienza” in Cina. A volte si è fortunati e si trova casualmente la persona giusta tra le risorse già a disposizione, ma si tratta di un caso.. Altre volte, si finisce per ottenere come unico risultato quello di ritrovarsi con una nuora cinese, ma con il problema del controllo dell’azienda ancora irrisolto. Non è certo facile trovare dei manager italiani con esperienza in Cina e che parlino la lingua. E molto spesso tra l’altro, sarebbe più adeguato rivolgersi ad un management locale. Che ormai costa, a parità di esperienza, anche il doppio di quello espatriato.Non è un caso, ad esempio, che le filiali locali di BNP Paribas e di Credit Agricole, abbiamo “importato” ad Hong Kong oltre 400 dipendenti francesi, che hanno un costo inferiore ai bankers locali. Noi, non abbiamo avuti tali problemi, in quanto gli italiani di Unicredit sono meno di 10 in tutta la Cina, cosi’ come quelli di Intesa. – I consigli. Lo scetticismo con cui le aziende italiane ascoltano in generale tutti gli advisor che operano in Cina è ormai – all’interno della molto ristretta cerchia di professionisti che fanno questo lavoro da molti anni – leggendario. Il mondo cinese è davvero complesso. Ci sono tuttavia delle costanti che – per fortuna – si ripetono, in maniera pressocchè matematica. Su certi temi pertanto, chi opera da anni in quel mercato riesce, ormai con gradi di approssimazione minimi, a prevedere alcune mosse e soprattutto i tempi con cui ci si dovrà muovere. Questo non è necessariamente risolutivo per il buon fine dell’investimento, ma lo è di certo per snellire i già di per se complessi rapporti, ed evitare facili entusiasmi. In ogni caso, quello che si è notato è la costanza con cui l’imprenditore medio italiano tende a seguire la controparte cinese, per certi versi in modo quasi acritico, E’ tale la voglia di entrare in Cina che abbiamo visto manager in altri mercati ed altre occasioni rigidissimi, e quasi spietati, trasformarsi in controparti accondiscendenti anche sugli aspetti più delicati di una trattativa, per poi rendersi conto che, alla fine, come ci consigliò un vecchio diplomatico cinese con tanti anni di servizio in europa, la chiave interpretativa piu’ semplice è che stranieri e cinesi quando si parlano “sognano sempre sogni diversi”. Tutto sta nel cercare di intepretare questi sogni con un pò di anticipo.
Gli Italiani in Cina: fra margini di successo e priorità da conseguire
