Al principio del 1600 nasce, in un sobborgo di Varanasi (attualmente nello stato indiano dell’Uttar Pradesh, grossomodo a metà strada tra New Delhi e Calcutta), Baba Keenaram, considerato il fondatore “formale” della tradizione Aghor.
Il concetto di Aghor, riportando le parole di Lorenzo Bonaventura che assieme alla moglie Camilla Previato è un sadhak (praticante) da circa 14 anni, “ancor prima che una tradizione è uno stato di coscienza in cui non si discrimina più tra ciò che è buono e cattivo, bello e brutto, le attrazioni e le repulsioni”. In virtù di questo si è Aghor “nel momento in cui si è centrati in uno stato dell’essere assolutamente equanime” e dunque l’omonima tradizione non può che essere trasversale.
Saltando il fosso delle peculiarità religiose, lasciandoci per un attimo alle spalle il mondo hindu, nel cui ambito si sarebbe “formalizzata” l’Aghor Sampradaya, in alcuni testi del Canone Pali il Buddha consiglia comportamenti che si sarebbero successivamente rivelati peculiari degli aghori ― ad esempio la frequentazione di campi crematori ― per realizzare la natura dell’impermanenza sviluppando un’attitudine equanime. Merita segnalare, di passata, che il diffusore del buddhismo in Tibet nel corso dell’ottavo secolo d.C., Padmasambhava (conosciuto anche come Guru Rinpoche), aveva vissuto a lungo in luoghi di cremazione.
Baba Keenaram, i primi tre giorni dopo la nascita, non piange e non si attacca al seno materno. Inizia a comportarsi da bambino normale solo dopo la visita di tre monaci hindu, considerati una manifestazione della celebre trimurti (composta da Brahma, Shiva e Vishnu). Dà precocemente segni di non ordinarietà e viene presto considerato un’avatar (incarnazione) di Shiva. Un giorno in cui il Gange è insolitamente infuriato e Baba Keenaram si avvicina alla riva, nel momento in cui le acque lambiscono i suoi piedi il fiume, d’improvviso, si acquieta. Fonda il Baba Keenaram Sthal-Kreem Kund, nell’attuale zona di Ravindapuri, a Varanasi, vi accende un fuoco sacro che, da allora, ha continuato ininterrottamente a bruciare, scrive diversi testi ritenuti oggi fondamentali per molti praticanti aghori (per quanto il filone sia piuttosto diversificato e non tutti i seguaci si riconoscano con la scuola Keenarami che è, tuttavia, la principale), si distingue per un’opposizione decisa a diverse forme di oppressione sociale e muore a circa 170 anni (naturalmente non sono nelle condizioni di garantire l’autenticità della sua longevità).
L’acqua del Gange fluisce a lungo, come da tempi immemori, lambendo i ghats varanasini fino a quando, nel 1937, in un piccolo villaggio del Bihar (oggi considerato lo stato più povero dell’India, confinante con l’Uttar Pradesh dove esporta migranti e criminalità organizzata) nasce Parampujya Baba Aghoreshwar Bhagwan Ram Ji, più semplicemente conosciuto come Aghoreshwar (Signore dello stato Aghor). Manifesta presto una chiara inclinazione spirituale al punto che la famiglia costruisce per lui un piccolo tempio nel villaggio ma, a 9 anni, lascia la casa avita e raggiunge Varanasi per poi entrare nell’ashram di Baba Keenaram. Il luogo in cui raggiunge la piena realizzazione spirituale, tuttavia, è il campo crematorio di Mehraura, in Uttar Pradesh.
Nella prima metà degli anni cinquanta prende corpo il suo primo ashram, cui fanno seguito altri tre nell’attuale stato di Chattisgarh. A questo punto è un’autorità spirituale riconosciuta e legittimata che non mancherà di lasciare un segno indelebile non solo sui seguaci della via Aghor ma in quella che sarà una nuova visione dell’impegno spirituale in India.
“Nei tempi antichi”, scrive Lorenzo Bonaventura, per superare le dicotomie cui si faceva cenno in precedenza (buono e cattivo, bello e brutto, attrazioni e repulsioni), “gli aghori praticavano in luoghi considerati impuri e terribili, consumavano sostanze intossicanti, vivevano in reclusione per non dover sottostare ai vincoli sociali. Oggigiorno la pratica Aghor [dopo una decisa riforma inaugurata da Aghoreshwar] consiste, in molti casi, nell’abbracciare ed accogliere coloro che sono rifiutati da tutti: gli ultimi tra gli ultimi, gli emarginati, i fuori casta, gli orfani. Dopo anni di intensa sadhana, Aghoreshwar Baghwan Ram ritorna nella società istituendo un lebbrosario nella riva impura della città sacra di Varanasi, rifiutando il seggio di capo del lignaggio nel Baba Keenaram Sthal-Kreem Kund e mettendo al suo posto un bambino di 10 anni.
La prima questa di una lunga serie di iniziative atte a rompere con una tradizione che guardava al passato. Da quel giorno le attività sociali volte a migliorare le condizioni dei meno fortunati si sono moltiplicate. Molti ashram sono nati, in India e all’estero, ispirati dagli insegnamenti dell’Aghoreshwar ma soprattutto dalla sua presenza ed esempio di vita”.
Allievo diretto di Aghoreshwar, Baba Harihar Ramji nasce in un piccolo villaggio dell’Uttar Pradesh, iniziando presto a frequentare Varanasi per ragioni di studio e rivelando un’attitudine insaziabilmente curiosa. Conosce degli americani e sviluppa la curiosità di vedere gli States dove riuscirà presto a trasferirsi beneficiando di una borsa di studio. Rimane a lungo negli Stati Uniti (dove ancora risiede buona parte dell’anno), lavora con profitto e raggiunge un’ottima posizione economica ma la sua sete non viene del tutto appagata.
Rimuginando questa sua insoddisfazione incontra, in uno dei suoi ritorni a Varanasi, Aghoreshwar. Inizia a frequentarlo con relativa regolarità e a sperimentare, in sua presenza, un sorprendente senso di pace. Giunge il momento in cui gli espone il suo “dilemma”: ho tutto ma non sono realmente felice e sto ricercando l’autentica felicità.
“Fino a che vivrai solo per te stesso”, risponde Aghoreshwar, “non sarai mai felice, la felicità autentica puoi trovarla nel sorriso degli altri, onorandoli con un servizio disinteressato!”.
“Avevo già sentito parole del genere”, mi dice Babaji nel corso di un’intervista, “ma quella volta mi impressionarono particolarmente, per la persona che le aveva pronunciate e per la sua storia di lungo, lungo servizio a beneficio di coloro che erano marginalizzati e vessati, in India”.
Aghoreshwar, tuttavia, suggerisce al suo discepolo di tornare in America, continuando a lavorare con profitto ma senza dimenticare di portare con sé “un amico”: un mantra da recitare ogni giorno. Babaji segue scrupolosamente le istruzioni del suo maestro ed inizia ad approfondire gli insegnamenti dell’Aghor sampradaya. Nel tempo ― attraverso un’identificazione “pura” e devota con il suo Guru, oltre alla sadhana appropriata ― acquisisce, a sua volta, lo stato di Aghor. Fonda un importante Ashram in California dove si dedica a curare, su suggerimento di Aghoreshwar, la “lebbra degli Stati Uniti”: l’irrequietezza, i rischi di degenerazione nevrotica del cittadino medio e, a partire dal 2000, avvia i lavori per la realizzazione del Bal Ashram sulla riva del Gange, nella zona sud di Varanasi.
“Come ogni albero che si rispetti”, scrive ancora Lorenzo, “il Bal Ashram ha molti rami: l’accoglienza residenziale di bambini senza famiglia, il progetto eco-park (Amrit Sagar eco center), l’Anjali School secondo il metodo didattico del progetto Alice, dove vengono istruiti, quasi gratuitamente, circa 150 bambini”.
Nel progetto eco-park, per l’autosufficienza alimentare dell’Ashram e per la vendita delle eccedenze (producono e vendono bene, ad esempio, dell’ottimo miele), trovano ricetto tecniche particolarmente innovative anche per il mondo occidentale ― come la permacultura ― accanto ad una più comune agricoltura biologica ed all’utilizzo di biomasse ed energia solare.
Oggi venti bambini hanno trovato nell’Ashram una nuova famiglia e diversi tra quelli che vi sono cresciuti, dal 2000, stanno trovando buone collocazioni professionali (uno nel management di una struttura della catena dei Taj Hotel, probabilmente la più prestigiosa in India, altri due come insegnanti).
L’ultimo progetto cui si stanno dedicando al Bal Ashram è una clinica, già realizzata in un lotto di terreno adiacente, specializzata nel trattamento delle malattie degli occhi. Stando a dati raccolti qualche anno fa, l’India è il paese con il maggior numero di ciechi nel mondo (anche in virtù di un altro primato poco lusinghiero, quello del numero di diabetici). L’attuale manager del Bal Ashram, Girish, mi diceva, nel corso di un’intervista, che stanno ultimando di raccogliere i fondi per approvvigionarsi delle tecnologie mediche necessarie per poter intervenire chirurgicamente sulle cataratte ed altro.
La speranza di Babaji è che il Bal Ashram diventi un modello fulgido cui altri, in India, possano ispirarsi. E’ una speranza che condivido appieno! Con i miei poveri strumenti divulgativi ho sempre incoraggiato il lavoro del Bal Ahsram perchè lo trovo in sintonia con una prospettiva auspicabile dell’India di domani: meno disumana, più egualitaria, più ecologica. Altri ashrams e iniziative di vario genere stanno tentando faticosamente di muovere nella stessa direzione, eludendo il frastuono di uno sviluppo ipertrofico, antiecologico e ancora, drammaticamente, elitario.
“Non bisogna trascurare di godersi il viaggio, pensando costantemente alla meta”, recita un proverbio cinese. Sappiamo che la meta è lontana, metaforicamente alla sorgente di un lungo fiume da risalire controcorrente. Tuttavia, possiamo rallegrarci all’idea del Bal Ashram come “l’isola che c’è”; dunque non ci resta che ― almeno empaticamente ― “fare vela”, assaporando ogni dondolante momento, nella nostra feluca, tra i flutti!
Per maggiori informazioni visitare il sito, in italiano, www.associazioneanjali.it
Manuel Olivares (www.viverealtrimenti.com)