Il punto sull’economia italiana: intervista a Hosoo Masao

Hosoo Masao
Cinquantaquattro anni, tre figli, 98 dipendenti (di cui 40 in Cina), Hosoo Masao ha ereditato l’azienda di famiglia venticinque anni fa, dopo un problema di salute del padre. “Ho accettato di prendere le redini dell’azienda solo a una condizione: che la ditta cominciasse ad avere rapporti commerciali anche con l’Italia” – confessa – “Mi ero innamorato dell’Italia, e lo sono tuttora”.Corriere Asia – Innanzitutto, in che cosa consiste il Suo lavoro?Hosoo Masao – Mi occupo di due settori. Il primo è molto tradizionale, e consiste nel produrre e vendere (come grossista) i kimono e gli obi [le cinture per i kimono, n.d.r.] . I membri della mia famiglia hanno cominciato a lavorare come tessitori più di 350 anni fa: producevano i kimono in seta per i monaci dei templi di Kyoto. Sono stati i miei nonni ad ampliare gli affari diventando grossisti, e veri e propri commercianti. Circa 15 anni fa, dopo mio padre, sono stato io a ricominciare a produrre i kimono. Così come in Italia, anche in Giappone gli artigiani stanno scomparendo ed ero preoccupato che si perdessero le tecniche tradizionali per la produzione dei kimono. Dunque ho deciso di riprendere la fabbricazione, cominciando a collaborare con una decina di tecnici e costruendo, nel 1995, uno stabilimento in Cina, vicino a Nanchino, da dove importiamo anche la seta. Ma il “software”, nella creazione dei disegni e nella scelta dei colori, è 100% giapponese. Dunque progettiamo i campioni qui, li scelgo e poi li produco in Cina.Il secondo lavoro è legato a filo doppio con l’Italia. Venticinque anni fa ho abitato a Milano per quattro anni, e ho lavorato per una joint venture metà giapponese metà italiana; poi ho cominciato a importare tessuti, gioielli, accessori, borse soprattutto, tutti di piccole marche italiane di alta qualità. Negli ultimi tre anni abbiamo cominciato a creare le nostre marche, in stretta collaborazione con artigiani italiani.

CA- Quali sono i criteri con cui sceglie i collaboratori italiani?

HM – Prima di tutto mi rivolgo ad artigiani che considero bravi, che hanno storia, tradizione e tecnica. Tutti devono fare merce a mano, non in grande quantità, perché non mi interessa semplicemente importare e vendere prodotti, ma la cultura degli artigiani italiani. Dopo aver incontrato personalmente ogni artigiano, curo insieme a ognuno di loro lo sviluppo del prodotto, cercando di far capir loro il gusto e la mentalità giapponese.

Anche a Kyoto abbiamo tanti artigiani, e possiamo comprenderne lo spirito.

Il mio sogno è un progetto di collaborazione tra artigiani italiani e giapponesi per la creazione di un prodotto totalmente nuovo. Penso che quello che noi vendiamo non sia merce, ma cultura: cultura tradizionale giapponese, con i kimono e gli obi, e cultura tradizionale italiana, grazie a prodotti originali della moda.

CA- Qual è il suo rapporto con i collaboratori italiani?

HM – È prima di tutto un rapporto fondato sulla fiducia reciproca e sul rispetto.

Per esempio, lavoro da 25 anni con la Leu Locati, di Firenze, e sono diventato amico con Paolo Amato, il titolare. In questi 25 anni, nonostante qualche volta ci siano stati normali problemi di consegna e di altro genere, non abbiamo mai firmato un contratto. Abbiamo lavorato come se fossimo una famiglia, e abbiamo lavorato bene e tanto. Per far sì che ciò avvenga è fondamentale il rapporto tra le persone. Quando lavoro con gli americani, loro vogliono subito firmare un contratto; ma deve comunque sempre esserci la fiducia. Bisogna creare una relazione umana, prima di tutto.

CA- Cosa ne pensa del mercato italiano, per il suo settore, e quali sono le differenze con quello giapponese?

HM – Naturalmente il mercato giapponese è più grande, anche perché la popolazione è doppia rispetto a quella italiana. Vendere sul mercato italiano non è facile, forse perché noi giapponesi non sappiamo ancora com’è esattamente.

Il gusto è il problema maggiore del mercato italiano, e per noi è molto più facile importare merce italiana dal mercato giapponese, soprattutto adesso, perché i giapponesi ricchi vogliono prodotti assolutamente originali, di piccole marche, cercano di evitare le grandi marche per concentrarsi sui piccoli artigiani. Dall’anno scorso stiamo producendo cuscini per il mercato inglese, Londra soprattutto, e Hong Kong, e a breve cominceremo a vendere questo prodotto anche in Italia. Non abbiamo ancora provato a vendere kimono in Italia, dal momento che i costi sono molto elevati essendo i nostri prodotti di primissima qualità. Però inizieremo a produrre yukata [kimono meno formali, in cotone, n.d.r.] per l’Europa.

CA- Cosa ne pensa dell’economia italiana, e quali sono i suoi problemi?

HM – Tutti i mercati del mondo hanno qualche problema. Nel caso dell’Italia, la cui economia secondo me è peggiorata cinque o sei anni fa, la prima questione è quella dell’euro troppo caro. Adesso il cambio per un euro è quasi arrivato a 170 yen, mentre secondo me dovrebbe essere tra 100 e 120 yen. La seconda cosa è la sensazione che avete avuto per il passaggio dalla lira all’euro: in passato vi sentivate più ricchi, mentre adesso siete in difficoltà. Per questo motivo molti imprenditori italiani, per risparmiare, preferiscono comprare merce cinese.

Penso che voi italiani abbiate tre chiavi fondamentali di sviluppo su cui avete puntato e dovreste puntare ancora: storia, cultura e bellezza. La merce deve essere bella, innanzitutto, ma poi devono esserci i valori aggiunti di storia e cultura, che la impreziosiscono ancora di più.

Gli artigiani e gli imprenditori italiani devono vincere la gara contro la Cina, differenziandosi ancora di più e creando cose originali. Per non fallire devono produrre cose molto particolari, molto “italiane”, in modo che possano continuare a vivere. Le aziende italiane con cui lavoriamo noi da questo punto di vista sono molto forti, e riescono a competere senza problemi con la Cina.

Bisogna puntare sui tecnici specializzati. Anche in Giappone abbiamo avuto lo stesso problema, prima di voi, circa 10 anni fa. Molte aziende giapponesi sono fallite a causa della concorrenza cinese: sono rimaste solo quelle che hanno coltivato e nascosto tecnici specializzati. Adesso lavoriamo bene e guadagniamo tanto, l’economia giapponese ha ricominciato a crescere 3/4 anni fa, e addirittura esportiamo materiali industriali e non solo in Cina.

Da questo punto di vista il Giappone ha vinto la sua sfida contro la Cina, e secondo me anche l’Italia ce la farà.

CA- Quali consigli darebbe a un imprenditore italiano per cominciare a lavorare in Giappone?

HM – A tutti gli artigiani con cui comincio a lavorare dico sempre che devono innanzitutto cercare di capire il Giappone: è fondamentale comprenderne il gusto, soprattutto, ma anche lo stile di vita, altrimenti non possono creare prodotti adatti al mercato giapponese. Invito sempre a venire qui, anche solo per una settimana, per rendersi conto di quello che è il Giappone. Fortunatamente a tutti piace questo Paese, e dopo il viaggio lavorano decisamente meglio, e riescono a capire perché un determinato tipo di merce non va bene o non si riesce a vendere.

Paolo Soldano

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