India ed Occidente: un incontro possibilmente equilibrato

Le diversità culturali tra l’India e l’Occidente, lo sappiamo, sono profonde.
Tuttavia, molte persone che hanno viaggiato e viaggiano in Oriente, rilevano che mentre in India riscontrano alcune affinità di fondo, in altri paesi asiatici si sentono davvero “su un altro pianeta”.
Naturalmente non è per tutti così. I disagi dell’India non hanno nulla a che vedere con quelli che possono comportare paesi come la Thailandia o il Vietnam, il Laos o la Cambogia (nel senso che mettono maggiormente alla prova il viaggiatore). Tuttavia, io stesso, dopo circa otto anni di vita in Asia, soprattutto in India, posso dire di riscontrare maggiori affinità psicologiche, dialogiche, finanche esistenziali con il popolo indiano, pur a fronte delle molte differenze.
E’ del resto abbastanza nota la questione indoeuropea, in virtù della quale tanto gli europei quanto gli indiani avrebbero radici etniche e linguistiche comuni.
Queste sarebbero da ricondurre ad una, pur vaga, famiglia indoeuropea, probabilmente autoctona dell’Asia centrale e protagonista, in tempi preistorici, di successive migrazioni a raggiera in buona parte dell’Eurasia.
Stando all’ipotesi indoeuropea, non da tutti accettata ma ancora maggioritaria, europei ed indiani sarebbero, dunque, pur lontani cugini.
Oggi l’India è, notoriamente, uno stato emergente.
Il baricentro geopolitico internazionale si sta, inesorabilmente, spostando ad est.
Trovo dunque ragionevole approfondire la questione del dialogo interculturale in quanto è bene che la sua cultura ci sia progressivamente meno estranea.
Nel corso del British Raj
In realtà il dialogo interculturale forse non tutti se ne sono accorti è iniziato da tempo.
Sarebbe lungo discutere in maniera un minimo approfondita, in questa sede, quanto di buono e meno buono abbiano fatto gli inglesi, in India. Sicuramente negli ambienti meno conservatori e spietatamente colonialisti britannici il fatto che l’India ricadesse sotto la giurisdizione dell’ “Impero su cui non tramontava mai il sole” non è stata cosa banale.
Alcuni intellettuali si sono seriamente appassionati alla cultura del paese colonizzato, a partire dal filologo e primo presidente della Royal Asiatic Society William Jones che, nel 1786, nella sede della stessa società, a proposito della lingua dotta indiana il sanscrito affermava:
«La lingua sanscrita, quale che sia la sua antichità, è una lingua di struttura meravigliosa, più perfetta del greco, più copiosa del latino, e più squisitamente raffinata di ambedue, nonostante abbia con entrambe un’affinità più forte, sia nelle radici dei verbi sia nelle forme della grammatica, di quanto probabilmente non sarebbe potuto accadere per puro caso; così forte, infatti, che nessun filologo potrebbe indagarle tutt’e tre, senza credere che esse siano sorte da qualche fonte comune, la quale, forse, non esiste più».
(William Jones, Discorso presidenziale alla Royal Asiatic Society of Bengala, 2 febbraio 1786)
Merita segnalare che appena 3 anni dopo il discorso citato, nel 1789, giungono i primi manoscritti in sanscrito nella biblioteca del British Museum, a Londra, segnando la nascita, in Europa, dell’indologia moderna.
Non meno fascinoso è stato l’incontro in ambito archeologico. Due nomi su tutti. Il primo: Sir Alexander Cunningham (1814-1893), considerato uno dei fondatori dell’archeologia e della numismatica indiane ed attivo nei lavori di restauro del Tempio di Mahabodi a Bodhgaya (costruito nel luogo in cui Buddha, intorno al 530 A.C., ottenne “l’illuminazione”), degli stupa di Sanchi ed a Sarnath (dove Buddha fece il suo primo sermone ai suoi primi 5 discepoli, successivamente noto come Discorso di Benares ed ancora oggi considerato il momento fondativo del buddhismo). Il Tempio di Mahabodhi e gli stupa di Sanchi sono oggi inseriti nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO mentre per le vestigia di Sarnath è stata inoltrata richiesta di inserimento dal governo indiano il 3 luglio 1998.
Il secondo nome è quello di John Hubert Marshall (1876-1958), direttore dell’Archaeological Survey of India ed anch’esso attivo a Sanchi, oltre che negli scavi che portarono alla luce i principali centri dell’antichissima civiltà della valle dell’Indo, fiorente intorno al III millennio a.C.: le città di Harappa e Mohenjo-daro, oggi in Pakistan.
In una parola, credo non sia azzardato affermare che la presenza inglese abbia contribuito non poco ad una profonda valorizzazione dell’ingente patrimonio culturale del subcontinente, innanzitutto agli occhi dei suoi stessi abitanti.
Altro importante, direi indelebile, intervento inglese in India è stata la proibizione, a partire dal 1829, della pratica della Sati, ovvero del suicidio rituale della vedova sulla pira funeraria del marito. A partire da detto provvedimento avrebbe avuto inizio una progressiva rivalutazione del ruolo della donna nella società indiana, dove fino al diciannovesimo secolo veniva spesso considerata una mera proprietà del marito.
Non va del resto dimenticato che la presenza inglese, in India, ha promosso il concetto stesso di lingua nazionale (l’hindi che, a partire dal 1955, ha sostituito quella dell’occupante britannico), in un paese dove si parlano ancora 22 lingue ufficiali.
Infine, credo sia d’obbligo segnalare che i sistemi economico, giuridico e scolastico dell’India contemporanea (per citare appena i principali) si sono, crucialmente direi, ispirati agli omologhi britannici.
Il dialogo interculturale promosso da “saggi” indiani; il lignaggio del Kriya Yoga
Naturalmente i meriti dell’avvicinamento delle due culture non sono da ascriversi solo ad occidentali (gli inglesi, del resto, hanno avuto anche diversi demeriti, in India, non di rado con conseguenze tragiche, da buoni coloni).
Nel mio testo Yoga dall’autentica tradizione indiana ho citato due importanti figure che hanno lavorato molto nella direzione del dialogo interculturale. La prima, quella di Mahavatar Babaji, alquanto misteriosa, è all’origine del lignaggio iniziatico del Kriya Yoga, che avrebbe avuto come suo esponente più celebre Paramhansa Yogananda, autore del bestseller Autobiografia di uno yogi.
Nello stesso testo viene riportato l’incontro avvenuto tra Babaji e Sri Yukteswar, maestro di Yogananda, nel 1894, nel corso del Kumbha Mela: il più importante pellegrinaggio hindu, organizzato, con cadenza triennale, in una di quattro città sante indiane: Haridwar, Nasik, Ujjain ed Allahabad (ad esso ho dedicato il libro Con Jasmuheen al Kumbha Mela, Viverealtrimenti, 2012).
Credo meriti introdurre questo dialogo menzionando lo scoramento di Sri Yukteswar poco prima di incontrare Babaji.
Nei Kumbha Mela difatti (ho partecipato a questo genere di eventi più di una volta) è possibile incontrare grandi santi ma anche, e di gran lunga più frequentemente, grandi cialtroni.
Sri Yukteswar stava dunque pensando con particolare ottimismo al più razionale mondo occidentale, in particolare a quegli “scienziati che pazientemente ampliano le sfere della conoscenza per recare concreti benefici all’umanità” quando venne chiamato da Mahavatar Babaji.
Questi, a fronte dello scoramento di Sri Yukteswar, gli disse:
«“Ogni cosa sulla terra è di carattere misto, come una mescolanza di sabbia e zucchero. Sii come la saggia formica, che prende soltanto lo zucchero e lascia la sabbia intatta. Benchè molti sadhu che sono qui vaghino ancora nell’illusione, il mela è benedetto da alcuni uomini che hanno realizzato Dio”.
[…]
“Ho notato che ti interessi tanto all’Occidente quanto all’Oriente”. […] “L’Oriente e l’Occidente devono tracciare un’aurea via intermedia in cui si integrino attività e spiritualità”, continuò. “L’India ha molto da imparare dall’Occidente dal punto di vista dello sviluppo materiale; in cambio, l’India può insegnare i metodi universali mediante i quali l’Occidente potrà basare le proprie credenze religiose sulle fondamenta incrollabili della scienza dello yoga.
Tu, Swamiji, hai un ruolo da svolgere nell’armonioso, futuro scambio tra Oriente ed Occidente. Fra alcuni anni ti invierò un discepolo che potrai formare affinchè diffonda lo yoga in Occidente”».
Circa un anno prima di questo pregnante dialogo, il 5 Gennaio 1893, nasce a Gorakhpur (nello stato indiano dell’Uttar Pradesh), Mukunda Lal Ghosh, successivamente conosciuto come Swami Yogananda Giri.
Questi incontra Sri Yukteswar nel 1910, all’età di 17 anni.
Dieci anni dopo è sulla nave Città di Sparta, diretto negli Stati Uniti. È il delegato indiano al Congresso Internazionale dei Religiosi Liberali, organizzato a Boston. Stiamo dunque parlando del discepolo cui accennava Babaji a Sri Yukteswar, che avrebbe promosso enormemente la pratica dello yoga in Occidente.
Nel 1920 Yogananda fonda, negli Stati Uniti, la Self-Realization Fellowship (SRF) per realizzare il progetto commissionato dai suoi maestri.
Nel 1925 fonda un centro internazionale della Self-Realization Fellowship a Los Angeles, in California, divenendo il primo insegnante hindu di yoga a risiedere stabilmente in America.
Yogananda torna in India nel 1935, incontrando il Mahatma Gandhi (condividendo gli ideali della resistenza passiva e della nonviolenza ed iniziandolo al Kriya Yoga).
Ottiene dal suo guru, Sri Yukteswar, il titolo monastico Paramhansa, che qualifica i più alti conseguimenti spirituali.
Dopo la sua visita in India e l’ultimo commiato con il suo Guru (mancato a Puri, in Orissa, il 9 marzo 1936), ritorna in America dove muore il 7 marzo 1952.
Il suo corpo è rimasto incorrotto per tre settimane dopo il decesso, come è stato testimoniato e documentato dal direttore del Forest Lawn Memorial Park Cemetery.
Dalla Self-Realization Fellowship di Los Angeles, sono stati fondati moltissimi centri di meditazione (da intendersi nel senso orientale del termine; come processo “introspettivo” e non “speculativo”) e templi nel mondo intero.
Soprattutto, a partire dal lungo soggiorno di Yogananda in America, la pratica dello yoga, pur, più o meno parzialmente, “corrotta”, è divenuta «uno degli aspetti della cultura asiatica maggiormente letto ed ampiamente assimilato (eccezion fatta per il cibo) […] [ed] uno dei primi e maggiormente riusciti prodotti della globalizzazione che ha inaugurato un paese spiritualmente poliglotta».
Il fatto stesso che oggi milioni di persone, in Occidente, pratichino lo yoga può rappresentare un buon presupposto per lo sviluppo di un dialogo interculturale vieppiù profondo.
Il contributo di Osho Rajneesh
Osho Rajneesh (1931-1990) è stato un personaggio diverso da Paramhansa Yogananda. In primo luogo, non è nato in una famiglia hindu ma jaina. In secondo luogo, non è stato legato ad alcuna tradizione, diventando presto un filosofo anticonformista.
Rajneesh ha insegnato filosofia all’Università di Jabalpur fino al 1966, quando ha deciso di dedicarsi integralmente alla propaganda delle sue controverse idee religiose.
Ha viaggiato per 4 anni in tutta l’India per poi stabilirsi, nel 1970, a Mumbai.
Lì ha iniziato a proporre ai suoi discepoli un’originale (molto originale) via di rinuncia (sannyas).
Nel 1974 si stabilisce, con il suo primo nucleo di discepoli, in un sobborgo di Poona (Koregaon Park), creandovi un ashram divenuto presto famoso in Occidente.
In questa prima fase del suo lavoro, Rajneesh crea diverse tecniche, originali, di meditazione.
Il suo principale obiettivo è coinvolgere gli occidentali in una nuova “prospettiva spirituale” che non difetta, certo, di sincretismo.
Insegna che la natura dell’uomo medio occidentale è sostanzialmente nevrotica, ragion per cui, nelle sue originali tecniche di meditazione (in particolare la Meditazione Dinamica), si fa abbondante uso di momenti catartici.
Ha anche proposto, nel suo ashram, diverse tecniche terapeutiche riprese dal Movimento del Potenziale Umano, creando una Multiversity: un importante centro di studi sull’uomo, realizzando una sua interessante sintesi tra le tradizioni orientali ed occidentali.
Nel 1981 trasferisce il suo esperimento in America, seguendo l’esodo di maestri indiani, iniziat, per fare alcuni nomi, con Swami Vivekananda alla fine del diciannovesimo secolo (che ha rappresentato l’India come delegato al Parlamento delle Religioni Mondiali, a Chicago), seguito da Paramhansa Yogananda, A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada (fondatore dell’International Society for Krishna Consciousness a New York) e da Yogi Bajan, promotore del Kundalini Yoga.
Vede dunque la luce una grande comunità in Oregon: Rajneeshpuram. Questa attrae migliaia di persone, distinguendosi per i “virtuosismi ecologici” ma anche per diversi aspetti “discutibili”.
Rajneesh viene arrestato il 28 Ottobre 1985 con l’accusa di aver contravvenuto alle leggi sull’immigrazione.
Liberato dopo 12 giorni, è costretto a lasciare gli Stati Uniti.
Nel 1987 Osho ed i neosannyasin fanno dunque ritorno a Poona dove il maestro muore il 19 Gennaio 1990.
Ci sono forti sospetti che, considerato un personaggio particolarmente pericoloso, durante i giorni della sua carcerazione sia stato avvelenato con del tallio.
Osho auspicava l’avvento di un “uomo nuovo”, in grado di integrare la spiritualità di Gautama Buddha con la gioia di vivere di Zorba il greco, la liberalità dell’Occidente con la profonda spiritualità dell’India.
L’uomo nuovo, “Zorba il Buddha”, “dovrebbe essere lucido e rigoroso come uno scienziato, sensibile come un poeta e radicato nel suo essere come un mistico”, non dovrebbe rigettare né la scienza né la spiritualità ma abbracciare entrambe.
Molto altro si potrebbe ancora scrivere di questa controversa figura ma forse è sufficiente citare appena una frase da uno dei suoi discorsi: «l’uomo orientale e l’uomo occidentale sono, oggi, due metà. Dalla loro unione la condizione umana, sulla terra, verrà completamente riformata».
Quando l’incontro tra le due culture si rivela un flop
Nei paragrafi precedenti sono stati fatti appena due esempi, di una certa rilevanza, di esponenti del dialogo interculturale. Non si contano, del resto, associazioni, ONG, organizzazioni religiose e parareligiose che tentano, ogni giorno, di rendere il dialogo vieppiù fruttuoso. Una trattazione a parte meriterebbero due pionieri occidentali: “l’eremita cristiano dell’India”, il francese Henri Le Saux (che cambiò il proprio nome in Swami Abhishiktananda), vissuto tra il 1910 e il 1973 e l’inglese Bede Griffiths (Swami Dayananda), vissuto tra il 1906 e il 1993. Entrambi monaci cattolici (benedettino il primo e camaldolese il secondo), vissero la maggiorparte del loro tempo nel sud dell’India, prendendo i voti dei rinuncianti hindu ed aprendo una via di mutuo scambio tra le due grandi tradizione religiose.
Eppure, ho avuto modo personalmente di constatare che in diversi casi l’incontro tra l’India e l’Occidente non è del tutto (finanche per niente) salutare.
Parlo di personaggi, “pretesamente induizzati”, che danno vita, loro malgrado, ad una vera e propria “tendenza”. Se non vivono stabilmente in India, frequentano il paese con una buona regolarità (essendone più o meno fanatici), talora come seguaci di un guru o di una precisa organizzazione religiosa, talaltra da “cani sciolti”. Più che ricercatori spirituali sono non di rado, a mio parere, persone problematiche che hanno spesso in comune almeno alcune tra le seguenti caratteristiche:
A) Una certa incongruenza e confusione a livello identitario. La cultura indiana ha senz’altro un’identità molto marcata, al punto che l’induismo viene da taluni qualificato come “religione etnica”. In effetti, per quel che ho avuto modo di vedere in diversi anni di vita in India, credo sia difficile essere realmente induisti (naturalmente con tutte le eccezioni del caso) se non si è nati indiani, ovvero in un paese la cui sfera religiosa è onnipervasiva. Questa difatti include l’ambito alimentare (con cibi rigorosamente vietati, almeno per i praticanti più assidui; non solo i cibi carnei, anche alcuni prodotti ritenuti “eccitanti” come, ad esempio, la cipolla e l’aglio), il rapporto tra i sessi e con il sesso, i rapporti in ambito famigliare (con pratiche che ancora si perpetuano come quella dei matrimoni combinati) e, più generalmente, i rapporti interpersonali, vissuti sempre su di una scala più o meno rigorosamente gerarchica, in particolar modo con i guru (cui si toccano, ritualmente, i piedi; pratica che si fa anche con i genitori, gli insegnanti e le persone “importanti”). Chi proviene da un Occidente oramai secolarizzato, grossomodo democratizzato, difficilmente può riuscire ad assimilare in toto modelli culturali così profondamente diversi, malgrado compia ogni sforzo per farlo. E, cosa ancora più ardua, ad essere assimilato da un contesto in cui si sente molto forte il senso di appartenenza ed il correlato dualismo noi-gli altri (ragion per cui un occidentale, in India, anche se acconciato come un indiano e pur ostentandone alcune, peculiari, gestualità sarà sempre, per la maggiorparte dei locali, un, pur mimetizzato, straniero, la cui identità sarà facilmente vieppiù confusa ed incongruente);
B) Una più o meno marcata tendenza ad un certo bigottismo ed un’attitudine facilmente forcaiola, eredità diretta di una cultura, come si accennava, geneticamente autoritaria ed i cui idealizzati eccessi ascetici indussero, già 2500 anni fa, Gautama Siddharta, successivamente conosciuto come Buddha Shakyamuni, a prenderne eterodossamente le distanze, proponendo piuttosto una dottrina imperniata sulla via di mezzo. La pratica dell’ascesi si sostanzia in buona parte attraverso la rinuncia al mondo ed ai suoi piaceri e se ha indubbiamente contribuito a formare grandi santi (di cui la storia dell’India non è sicuramente carente), trovo che le ripercussioni “repressive” dell’ideale ascetico nella cultura e nella quotidianità indiane contribuiscano, altresì, a “pervertire” la maggiorparte dei comuni mortali (che avrebbero forse bisogno di un maggiore “laicismo”).
La feroce sessuofobia della cultura indiana è, ad esempio, considerata una delle cause dell’altissimo tasso di stupri che avviene nel paese (secondo alcuni dati, riportati su Asia News Channel, in India verrebbe stuprata una donna ogni 20 minuti).
C) Una più o meno marcata tendenza all’autoritarismo ed una sostanziale impermeabilità all’altro, corroborate da una superba autoreferenzialità. Questa, a mio modo di vedere, risiede nel rapporto che costoro credono di avere con la verità e qui è utile considerare, pur molto brevemente, il buon livello di accessibilità, legittimato filosoficamente, del divino in ambito hindu. Questo, avendo da un lato favorito lo sviluppo di un grande tradizione mistica, non manca, a mio parere, di avere alcune ripercussioni negative presso persone meno provvedute, spingendole talora a forme più o meno allarmanti di “delirio mistico”.
Le Upanishad hanno legittimato, monisticamente, la consustanzialità tra anima individuale (Atman) ed anima universale (Brahman): la più alta espressione del divino, ragion per cui, scendendo nei recessi del proprio essere, si diventerebbe “uno con Dio”.
La visione reincarnazionista hindu postula l’immortalità dell’anima individuale che resta sostanzialmente se stessa pur incarnandosi, di volta in volta, in corpi diversi. Su questo punto si apre un divario cruciale con la successiva interpretazione buddhista del sé (concepito in ambito hindu come assoluto, permanente, individuale e, come appena accennato, capace di sopravvivere alla cessazione del corpo), visto piuttosto come non-sé: anatta. In altre parole, se nel paradigma induista l’essenza di ogni persona è un’anima con proprie irriducibili peculiarità (ragion per cui ciascuno di noi avrebbe una propria anima, diversa da quella di ciascun altro e che, nella sua espressione più profonda, sarebbe consustanziale con il Brahman), in quello buddhista la stessa essenza è “vuoto” (una trattazione a parte meriterebbe il concetto apparentemente paradossale di “vuoto pieno”), laddove gli aspetti più superficiali del sé sarebbero il prodotto di cinque aggregati: forma, sensazione, percezione, coefficienti e coscienza.
Possono sembrare sofismi filosofici ma ho personalmente riscontrato che i due approcci hanno contribuito a creare attitudini culturali alquanto diverse, in India ed in stati a maggioranza buddhista dove ho avuto modo di soggiornare per periodi più o meno lunghi, ad esempio in Sri Lanka e, soprattutto, in Thailandia.
In ambito hindu, nascere in una famiglia di brahmini (la casta più alta) è considerato un segno di maggiore evoluzione della propria anima, rispetto a quella di chi nasce, ad esempio, nella casta dei servi o, addirittura, nell’ambito dei fuoricasta (dalit; contano ancora 180 milioni di persone tra le loro tragiche file, in India). In ambito buddhista (dove più che di reincarnazione è giusto parlare di rinascita), nascere in una condizione più o meno svantaggiata è da ricondursi, più genericamente, ad un’eredità karmica, non ad un livello evolutivo del sé, nella misura in cui, come abbiamo visto, non esiste alcun sé cui far riferimento. Percepirsi come un aggregato di elementi difficilmente può insuperbire tanto quanto percepirsi come un sé autonomo, irriducibilmente individuale, più evoluto di quello di altri.
Ora, fino a che si resta in ambito indiano tutto ciò mantiene una sorta di propria naturalità culturale ma quando concetti come la visione hindu del sé germinano in psicologie spesso fragili di transfughi dall’Occidente, ne possono facilmente risultare ibridi inquietanti. Ad esempio: soggetti confusi, bigotti, autoritari e, come se non bastasse, esaltati, convinti, eventualmente in virtù di una più o meno regolare pratica spirituale o di suggestioni per cui pensano di essere particolarmente vicini alla propria essenza divina, di “essere più dèi degli altri”, dunque legittimati a relazionarsi con i comuni mortali con l’alterigia che si può presto apprendere, in India, dai brahimini. Ho ad esempio conosciuto una persona che ha acquisito un nome, hindu, composto, in cui compare anche la parola devi che, in sanscrito, significa dea. E’ un esempio tra tanti, dello stesso genere, che si potrebbero menzionare.
D) Last but not least, un’altra caratteristica comune è la tendenza più o meno marcata alla maniacalità, segnatamente quella di tipo mistico e lo sviluppo di un atteggiamento nei confronti dell’altro orientato ad una, non di rado aggressiva, fidelizzazione, più che alla ricerca di un rapporto paritario.
A peggiorare le cose sono le interazioni che questi occidentali “pretesamente induizzati” hanno con buona parte degli indiani.
Parliamo di un paese il cui 25% della popolazione vive ancora sotto la soglia critica della povertà, il cui tasso di analfabetismo si aggira attorno al 35%. A dispetto delle performances degli ultimi anni (inclusa la navicella che si stanno recentemente preparando a spedire su Marte, con spese esorbitanti che, osservano alcuni, potrebbero essere piuttosto dirette a lenire le enormi carenze sociali), l’India resta ancora un paese abbondantemente sottosviluppato, con il 48% di minori malnutriti (dati del Times of India) ed altri primati negativi. Un paese che ha senz’altro una grande tradizione filosofica, artistica e mistica ma in cui una buona parte della popolazione ha ancora un’attitudine fortemente superstiziosa e poco razionale, miserabile e servile.
Gli occidentali di cui stiamo parlando vengono dunque facilmente adulati, serviti e riveriti nel corso dei loro soggiorni in India. Di conseguenza, non avendo, in molti casi, una personalità particolarmente stabile, il loro ego (lo stesso che dovrebbero superare attraverso la pratica spirituale, sadhana, per giungere ad essere uno con il divino) “impazzisce”, rendendoli vieppiù autoritari, alteri e, non di rado, implementandone le malcelate smanie guriste.
Conclusioni
In chiusura, credo sia utile ribadire la necessità, oggi più di 5 o 10 anni fa, di un dialogo interculturale che abbia come protagonisti l’India e l’Occidente (senza naturalmente escludere altre culture asiatiche che non sono, tuttavia, oggetto di questo articolo). L’Europa ha dato al mondo le basi della cultura del contratto sociale, dello stato di diritto, del rispetto dei diritti primari e dei diritti umani e molto altro ancora: conquiste, soprattutto, del cosiddetto processo di secolarizzazione, avvenuto a partire dalla Riforma Protestante. Lo stesso processo, tuttavia, ha impoverito di senso l’Occidente, rendendolo in buona parte orfano di sacro oltre che di una tradizione e cultura definite.
Ananda Coomaraswamy (1877-1947), considerato uno dei principali studiosi dell’arte indiana e, più in generale, dei rapporti tra la civiltà simbolica orientale e quella occidentale, parlando dei popoli europei utilizzava la definizione di “massa amorfa”.
Credo l’Occidente abbia bisogno di un profondo processo rigenerativo, a livello macro-esistenziale oltre che culturale e che l’immenso bacino indiano di simboli, archetipi e filoni sapienziali possa aiutarci a sopravvivere alle ombre cupe di un possibile, prossimo “tramonto”. Naturalmente, è auspicabile che ad incontrarsi non siano le nevrosi occidentali (di gente che riversa in un esotico sacro le proprie frustrazioni, inadeguatezze, finanche le proprie tossicodipendenze) con l’assolutismo indiano ma una cultura del contratto sociale ed una sana empatia interumana con la saggezza del dharma ed una mistica che non scada, facilmente, nel delirio.
Non sarà facile ma un fruttuoso dialogo interculturale potrebbe essere uno dei prossimi “e maggiormente riusciti prodotti della globalizzazione”. Del resto, sembra chiaro che indietro, ad un mondo provinciale, di comune ripiego sulle sole cosucce di casa propria, non si possa ragionevolmente tornare.
Manuel Olivares (www.viverealtrimenti.com)
I libri dell’autore
Yoga dall’autentica tradizione indiana
Con Jasmuheen Al Kumbh Mela