Joint Venture in China: tempo del ritorno?

HONG KONG: Il flusso di acquisizioni da parte di aziende europee in Cina sta rallentando mese dopo mese. Ed il motivo non è certo la mancanza di potenziali compratori occidentali. Anzi, sono sempre più numerosi i gruppi europei – e parliamo prevalentemente di aziende con fatturati compresi tra 100 e 500 milioni di Euro che oggi, pur investendo tempo e risorse nella ricerca di target locali, si scontrano con la realtà della Cina. E la realtà della Cina oggi è di quella di un paese dove le valutazioni di aziende che hanno, molto spesso, l’unico pregio di avere una – a volte minima – organizzazione locale, oscillano tra 40 e 60 volte gli utili e, se gli utili non ci sono, si parla di 20 volte il fatturato. E non sono cifre destinate ad essere riviste al ribasso. Non servono ad innescare un processo negoziale. Sono valutazioni figlie (i) del modo di lavorare dei fondi di investimento locali, che stanno operando con orizzonti temporali di 6 mesi tra l’acquisizione e la quotazione, promettendo – e sino ad ora realizzando – valutazioni da capogiro e (ii) della relative facilità con cui le aziende locali sono cresciute, complice da un lato la mancanza di una concorrenza straniera ed il parallelo boom del mercato locale. Non tutte le aziende cinesi certo sono destinate ad essere quotate o diventano obbiettivi per i fondi, ma le valutazioni diventano vox populi. Basta scorrere i listini cinesi per verificare che l’80% delle aziende quotate ha delle capitalizzazioni che non hanno alcun legame con i fondamentali del business. Parliamo inoltre di acquisizioni che tra l’altro molto raramente possono essere finanziate. Il leveraged buy out è praticamente sconosciuto. Ed i criteri con cui le aziende cinesi, mediamente, tengono i conti, non ne permetterà a breve uno sviluppo diffuso. Sono le stesse banche locali a stare alla larga. Salta quindi qualsiasi parametro con la realtà a cui siamo abituati. Si aggiunga inoltre che la maggior parte delle aziende cinesi sono guidate da una classe di imprenditori quarantenni, che hanno creato la loro azienda da zero in pochi anni e che non hanno – in realtà – alcuna voglia di vendere. Anzi, ritengono, non sempre a ragione probabilmente, che è proprio adesso il momento in cui cominceranno a raccogliere i frutti. Questo non significa tuttavia che gli imprenditori cinesi non siano interessati a comprendere i processi, a conoscere i mercati e soprattutto la tecnologia dei più maturi gruppi occidentali (che nei sogni nemmeno troppo segreti dei cinesi, rappresentano comunque i target nel prossimo decennio). Quindi, da un lato abbiamo gli stranieri che vogliono entrare in Cina e che valutano l’opzione green field come “troppo lenta” e da un lato i cinesi che sono interessati ad acquisire conoscenze tecnologiche e di mercato, ma che non mollano sulle valutazioni. Diciamo che ormai l’esperienza più recente insegna che se un imprenditore cinese vende significa che il giorno dopo il closing ha già pronta un altra azienda che si trova nel giro di 18 mesi, con un sistema di vasi comunicanti, a diventare il clone di quella appena ceduta. E quindi non appena qualcuno decide davvero di vendere a prezzi che ci sembrano ragionevoli, purtroppo quello divento un deal da cui fuggire. I patti di non concorrenza, purtroppo, non hanno grande possibilità di esser fatti rispettare in Tribunale. E torna di moda il vecchio detto che “l’operazione migliore è quella che non si è fatta”. Il circolo è quindi vizioso. Ma i due interessi vanno comunque in qualche modo soddisfatti. Si sta quindi tornando ad utilizzare la Joint Venture. Una forma che era stata praticamente bandita dal vocabolario degli investimenti stranieri in Cina. Sino a 10 anni fa circa, si stimava che il tasso di mortalità, ossia di liquidazione delle Joint Venture sino-straniere fosse vicino al 90%. Oggi, invece sembra che la società mista stia diventando praticamente l’unico modo per riuscire a collaborare davvero. Una legislazione più attenta ai patti parasociali, che non valgono più solo la carta dove sono scritti, una maggiore disciplina degli stranieri che non si affidano ciecamente al socio locale, ma che investono in proprio management, sta di fatto rendendo la Joint Venture lo strumento con cui tornare ad operare. L’azienda straniera e quella cinese creano una società per perseguire un progetto specifico che sia innovative per entrambi. E’ questa, pare, per il momento, la chiave del successo. Gli sforzi comuni vanno in una direzione che apporta comunque conoscenza e mercato ad entrambi i soci, che quindi, perlomeno nell’immediato non sono, e non potrebbero comunque essere, concorrenti. Gli investimenti ed i rischi sono limitati rispetto ad una acquisizione e questo sembra essere l’unico modo oggi per avvicinare ragionevolmente le due parti. Lo scenario cambierà di nuovo non appena la febbre delle valutazioni – prima o poi – necessariamente scenderà.

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