Il 5 marzo scorso è entrata in vigore una circolare del Ministero del Commercio Cinese che definisce i settori in cui sono limitate le acquisizioni di aziende cinesi da parte di gruppi stranieri. Viene richiesta una preventiva autorizzazione per tutte quelle operazioni che, in astratto, possono riguardare la stabilità e la sicurezza del paese o la cessione di tecnologie ritenute strategiche, in particolare nell’industria dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti e, ancor più genericamente, nella produzione di macchinari e addirittura nell’agricoltura. La legge prevede inoltre la nomina di una commissione composta da membri di vari Ministeri per effettuare i controlli e concedere le approvazioni del caso. Da più parti ci si chiede l’obbiettivo di tale normativa, posto che la legge in vigore attribuisce già un sostanziale diritto di veto da parte delle autorità cinesi a tutte le operazioni di acquisizione effettuate da stranieri sul territorio cinese e che alcuni dei settori, come agricoltura e macchinari, erano considerate industrie in cui l’investimento straniero era addirittura incoraggiato. Quella appena entrata in vigore è una normativa, per il momento, piuttosto generica, ma proprio per tale motivo è opportuno cercare di comprenderne fino in fondo le finalità, in quanto rischia di creare confusione su chi si sta muovendo in Cina. Si tratta di una Circolare che lascia, come sempre nelle prime stesure delle norme cinesi, dei larghissimi spazi interpretativi che verranno successivamente colmati in base alle esigenze della pratica. E questo, ovviamente, è l’aspetto che più preoccupa. Chi opera in Cina è chiamato costantemente ad interpretare ed a prevedere quelli che saranno gli sviluppi e le applicazioni delle normative che di volta in volta vengono emanate. E’ un esercizio che, nel corso degli anni, è stato fatto costantemente nel prevedere tempi e modi delle applicazioni di riforme storiche per gli investitori stranieri. Dalla possibilità a metà anni novanta di poter costituire una società con totalità di capitale estero, alla totale apertura del mercato retail per gli stranieri; una riforma che, a singhiozzo, si è protratta per 10 anni. C’è quindi un’abitudine a seguire i ragionamenti del legislatore ed, in un certo senso, a prevederne i tempi. Ma oggi, con questa integrazione, ci si è accorti che la Cina sta dicendo qualcosa di diverso. Perchè ben sappiamo che alle generiche norme della Nota del Ministero del Commercio seguiranno, presumibilmente nei prossimi mesi, dei regolamenti applicativi che potrebbero ostacolare le campagne di acquisizione nel Paese, soprattutto quelle dei grandi Gruppi internazionali. Occorre quindi cercare di capire i motivi di quella che potrebbe essere una tendenza costante. E’ vero dunque che la Cina si sta chiudendo agli investimenti stranieri, come da più parti viene osservato? Non è corretto generalizzare. Ci sono numerose variabili ormai nelle politiche della Cina in relazione agli investimenti stranieri, che sono anche influenzate (i) da come la Cina si sta muovendo nel processo di espansione internazionale (ii) dalla crescita della proprie aziende, che, ricordiamo, per i due terzi, sono ancora controllate dallo stato. Nel corso degli ultimi anni la Cina si è impegnata sui mercati esteri in due direzioni. Ad assicurarsi l’approvvigionamento di materie prime e a conquistare quote di mercato, senza particolare interesse, per il momento, alle marginalità e quindi operando in una sorta di dumping istituzionalizzato, con il supporto delle proprie banche che sono pronte a finanziare, a condizioni inferiori a quelle di mercato, gli stessi clienti delle aziende cinesi. Ma, in entrambe le direzioni, la Cina ha trovato degli ostacoli. La Cina ha speso nel 2010 circa 50 miliardi di Euro per l’acquisto di partecipazioni all’estero. Ad esempio, tra le più rilevanti, oltre 7 miliardi sono andati per l’acquisizione di una quota delle attività brasiliane della spagnola Repsol e 3 sono stati spesi per una minoranza dell’australiana Arrow Energy. Ma la cifra sarebbe potuta essere ben maggiore se gli australiani avessero permesso la fusione di Chinalco con Rio Tinto o gli USA le acquisizioni da parte di Huawei Telecom o di Pan American Energy da parte di Cnooc, oltre ad altri deal, più o meno “pubblicizzati”, che sono stati bloccati o meglio sconsigliati, dalle varie autorità nazionali. Soprattutto Stati Uniti ed Australia hanno alzato barriere contro le acquisizioni, anche di minoranza, nel settore delle materie prime e delle tecnologie, chiamando in causa a volte la sicurezza nazionale, a volte allargando le maglie della legislazione anti-trust. L’Australia, in febbraio, ha modificato le regole che governano gli investimenti esteri proprio per evitare che la Cina possa entrare nel capitale dei propri gruppi minerari. Solo in alcuni paesi in via di sviluppo la Cina è riuscita a raggiungere l’obbiettivo di assicurarsi forniture di petrolio e materie prime, in via in alcuni casi quasi esclusiva. Si tratta di accordi che non vengono resi pubblici e che prevedono in sostanza finanziamenti e realizzazioni di opere infrastrutturali in cambio di petrolio e minerali. Solo in Libia sino a 15 giorni, fa erano presenti oltre 35.000 operai cinesi, impiegati nella costruzione di strade e città. Per la cronaca 32.000 cinesi sono stati fatti evacuare, dal governo cinese nella prima settimana di marzo. Sul fronte estero quindi la Cina sta cercando di combattere la propria battaglia espansionistica a seconda degli interlocutori che si trova di fronte, ma i timori dei paesi sviluppati ne stanno frenando notevolmente le ambizioni. Il fenomeno ormai è chiaro e consolidato. E la Cina non ha intenzione di continuare a vedere i propri gruppi respinti nell’ormai irrinunciabile consolidamento estero. E si prepara ad una contro-offensiva, che può essere combattuta in maniera efficace utilizzando l’unica arma che nell’ultimo decennio ha dato risultati incredibili: l’accesso al proprio mercato. Da ciò – e quindi da una sorta di applicazione allargata del concetto di reciprocità – deriva la nuova politica della Cina, che vuole avere un maggiore controllo sugli investimenti stranieri. Ma solo su alcuni tipi di investimenti. Solo sulle operazioni che riguardano grandi multinazionali o fondi internazionali, che sono gli attori con cui i cinesi si devono poi confrontare sul terreno mondiale e che molto spesso sono gli stessi che – soprattutto i gruppi multinazionali – hanno remato contro in occasione delle sortite estere dei gruppi cinesi. E quindi Pechino diventa più attenta a far si che all’ingresso nel mercato cinese corrisponda, in qualche modo, una contropartita analoga negli altri paesi. I mega deal andranno negoziati su scala differente, contemperando gli interessi dei gruppi cinesi all’estero, da mettere sul piatto della bilancia al momento di concedere il via libera per le acquisizioni in Cina. Di fatto aumentano i costi. Non sarà sufficiente un’offerta miliardaria, ma per le operazioni importanti sarà necessario studiare, e quindi necessariamente far entrare in gioco anche i rispettivi governi, un “pacchetto” che preveda in un certo qual modo anche un accesso equivalente o comunque prospetticamente verosimile ai cinesi nella propria economia. Il tutto, nell’ottica cinese, rispecchia una sorta di principio di reciprocità, che la Cina tenderà ad applicare in modo sempre più automatico. Nulla di scritto e di dichiarato ufficialmente. E probabilmente il concetto non sarà nemmeno esplicitato, se non con il garbo delle diplomazie, ma il messaggio è chiaro. E da qui, quindi, i primi riflessi pratici: le iniziative di Coca Cola in Cina, che tutto si può dire tranne che possano minare la sicurezza nazionale, vengono bloccate. Il Governo Cinese ha fermato l’acquisizione da 2,4 miliardi di dollari di Hiyuan, un produttore locale di succhi di frutta. In questo caso Pechino ha provato a chiamare in causa un presunto abuso di posizione dominate, ma la mossa, evidentemente pretestuosa, ha attirato gli strali degli Stati Uniti. Ed allora ecco la modifica alla legge, l’ampliamento della discrezionalità che fornisce una “norma aperta” con cui gestire di volta in volta le situazioni più importanti e che formalizza il messaggio all’esterno, senza che, formalmente, nessuno possa chiamare in causa applicazioni palesemente opportunistiche o, peggio, punitive, della legge antitrust. E per noi italiani? Per una volta potremmo essere messi bene. Siamo fuori dal circuito dei mega deal. Non abbiamo gruppi in grado di fare mega acquisizioni in Cina. Ne di fatto abbiamo gruppi che sono di interesse strategico per la Cina. Siamo fuori dai giochi dei grandi, ma per una volta anche dai grandi problemi. E possiamo lavorare. In Cina le nostre aziende stanno ricevendo, in questo momento una disponibilità che, a parità di condizioni, tende a favorirci rispetto ad altri paesi europei (tranne la Germania) e sicuramente rispetto agli USA. Lo abbiamo chiesto e ci è stato confermato in diverse occasioni: c’e’ stato un passaparola governativo, per cui diciamo che l’Italia è uno dei paesi che, per il momento, ha una accoglienza privilegiata. Le nostre aziende ed il nostro tessuto industriale sono ritenuti compatibili con quello cinese e soprattutto i nostri sbarchi sono visti solo come opportunità per le aziende e per il mercato interno cinese. A fare i grandi numeri ci penseranno i cinesi stessi (e quindi, ad esempio, i vari Wall Mart, Carrefour ed Home Depot sono costretti a ritirate precipitose) ma a fare il lavoro di rifinitura, nella componentistica, nei macchinari, nell’arredamento, serviamo noi. Non abbiamo fatto molto per conquistarci questa posizione di momentaneo vantaggio ma, di certo, è il caso di sfruttarla, soprattutto nell’andarsi a cercare opportunità tra quei due terzi di aziende cinesi che sono a partecipazione statale. Federico Palazzari Palazzari & Turries LTD Hong Kong
M&A, un cambio di direzione che può favorire l’Italia
