25 Giugno 2007P.C. – Professionalmente nasce come architetto, ma l’aspirazione artistica approda alla fotografia. Parlando di questo percorso personale che va dall’architettura al paesaggio, filtrato attraverso lo sguardo di un animo da fotografo, può raccontarci come ha vissuto questo cambiamento? In maniera contrastata e spesso dualistica oppure come naturale evoluzione della sua sensibilità artistica?
N.B. – Nessuna dualità. Avevo intrapreso il mio percorso “creativo”, partendo da una delle possibili vie di allora: l’Architettura. La via più riconoscibile in una Sicilia degli anni 80 dalla quale potevo scrutare la questione della forma e della professione, salpare da una disciplina_strutturata per interrogarmi sul valore della bellezza. Durante la mia infanzia, del resto, avevo avuto la fortuna di scoprire il piacere del comporre giocando nella falegnameria di mio padre, di guardare il mondo a partire dai disegni fatti su avanzi di compensato, di assistere al silenzioso divenire delle ipotesi che scaturivano da bisogni concreti: l’assemblarsi delle parti, il generarsi di risposte precise a bisogni dell’abitare.
Sono cresciuto nella grande palestra della cultura del progetto che guardava con orgoglio alle culture dei popoli innalzando grammatiche per deità: lesene, metope e triglifi, forme di bellezza e armonia. Ho amato molto questi percorsi, occasioni di riflessione, metodi, dubbio intorno alle cose, disgelo delle ipotesi attraverso un incessante dialogo tra visione, simboli, soluzioni concretizzate nella materia. Tuttavia, continuando a lavorare sul ristretto confine teso tra progetto e bisogno, la mia “domanda interiore” cominciava ad inaridirsi gettandomi in lunghi attimi d’attesa. I miei maestri di allora erano costruttori di “materia densa”, mentre io cercavo “costruttori dell’impalpabile.
P.C. – Cosa rappresenta l’Asia nel suo percorso artistico e umano? Quando l’ha scoperta e con quale meraviglia?
N.B. – Mi ero già interrogato, come tutti quelli della mia generazione a suo tempo, sugli echi che provenivano da un altro “lontano” che, (non essendo più la Grecia il bacino di riferimento storico_estetico) emanava tradizioni d’equilibri profondi e professava accorate cosmogonie, erano i tempi dove si sentiva di amici che andavano in India … Recentemente quando ho sentito che la mia fotografia avrebbe in qualche modo riprodotto i miei viaggi in occidente come un noto visibile già impacchettato in film e letteratura, sono ripartito da un preciso riferimento: il Tibet e l’Himalaya, una sorta di tetto del mondo dal quale sperare di poter ricomprendere tutte le geografie, quelle interiori e quelle dell’origine del mondo. E’ stato quello un viaggio di conversione, di risonanza, di ridirezionamento della mia ricerca. Le grandi distese, i Campi Elisi, il paesaggio a perdita d’occhio e stratificato, dove coesistevano in un tiepido caleidoscopio ere, glaciazioni, deserti e ghiacciai, dove riverberi dell’anima in forma di territorio divenivano soffice ricerca nella quale il mio occhio accettava una forma del mondo.
P.C. – Lei, che come molti altri artisti e direi anche professionisti, hanno vissuto il contatto artistico, nella ricerca visiva dell’esperienza fotografica, con la realtà sociale della Cina di oggi, quale emozione o impressione maggiore vuole condividere?
N.B. – I viaggi in Cina hanno sancito per molti versi ancora una morte, quella di uno strumento: la fotografia. Se prima il dissolvimento era stato quello di una disciplina, l’Architettura, durante l’ultimo viaggio nello Yunnan ho dovuto rimodellare lo sguardo verso un azzeramento dello strumento fotografico (normalmente inteso come riflesso del reale) per intraprendere racconti indiziali, metafore visive, riverberi e somiglianze che, per certi versi, già esistevano in tutta l’arte a d’oriente. In altre parole, parte dei miei vecchi codici espressivi, morivano proprio nella Shangri_La dal promettente e salvifico nome “la luna e il sole nel cuore”. In quelle distese mi sono piegato alla forza del mistero che prevale su ogni speranza: ho dovuto implorare la mia guida locale di condurmi tra i paesaggi pubblicati sulle guide per turisti piene di straordinarie e corpose vallate. Volevo annegare in uno di quei paradossi dello sguardo per poter anch’io declinare il mio “sole nel cuore”. Trasformare, nelle lunghe insonnie di frustrazione, il senso del mio viaggio, era diventata la realtà oltre ogni desiderio.
Riscoprire l’atto del fotografare, risalirne il mistero modularlo in un gesto d’ascolto nel quale l’atto del vedere poteva accedere illeso ad ogni contraddizione, concettualismo, diventando capace di trasportaci verso galassie inesistenti.
P.C. – Cosa ha scoperto in questo viaggio nel confronto fra sensibilità e tradizione occidentale e misticismo ma anche dinamismo della realtà cinese? Cosa a livello concreto l’ha colpita nella sua quotidianità a Pechino?
N.B. – Potrei dire ancora un segnale, un’esortazione a compiere il proprio destino senza interrompersi senza voltarsi indietro, per certi versi quasi come se la ragione nulla potesse modificare. Infatti, ero passato con la luce cocente dalla Piazza Rossa e mi aveva colpito l’immagine gigantesca del Grande Timoniere che ricordava, come un punto di fuga, brani della recente storia nella quale ero immerso. Mi ero ripromesso di fare alcuni scatti di notte, per cancellare superflui e bancarelle. Verso le 21,30 comincio la mia danza con lastre e obiettivi, indago lo spazio e il suo possibile racconto, trovo il giusto riquadro da registrare e finalmente carico la macchina. Ma Pechino non è Las Vegas e non si racconta per tutta la notte, non è la notte dell’occidente. La luce della piazza viene spenta alle 22,00 perdo l’immagine che mi rimane nel cuore.
P.C. – Parliamo poi della sua mostra attualmente in corso a Milano, presso la galleria Fotografia Italiana Nicoletta Rusconi e Fabio Castelli, in Corso Venezia. Un percorso che si rifà principalmente ai suoi viaggi in Cina, Nepal, Tibet interiorizzati e raccontati nel confronto con alcuni paesaggi occidentali d’Europa e Stati Uniti. A cosa è dovuto il richiamo ai termini cinesi di JU-LU che intitolano la mostra e nello stesso tempo paiono essere il motore della sua ricerca artistica?
N.B. – Ho scoperto questi due termini studiando alcuni testi del buddismo Ch’a nel quale, tra le infinite specificità delle radici culturali vengono individuate (in questi due piccoli suoni) modalità dell’essere anche in relazione alla visione:
« […] La quiddità (ju) è lo stato autentico delle cose […] esso non allude alla natura misteriosa, alla sostanza impenetrabile delle cose, bensì all’onnipresente nudità e vacuità. Quando il pensiero dualistico è sospeso, si comprende […] che le cose sono così (ju), cioè insignificanti e vuote […] sceglierle o rifiutarle non ha più senso » recitano i testi appunto.
Il termine “lü” lo conoscevo da sempre, ma specchiato in altre parole «…ansietà e progetto, […] attesa di continuo soddisfacimento futuro, trascurando tutto ciò che il presente offre…». L’occidente vi si riflette da sempre.
Quando con i galleristi abbiamo configurato il percorso espositivo, riguardando le immagini che provenivano dai viaggi effettuati negli ultimi anni, le dualità “matriciali” tra Oriente ed Occidente ci sembrarono attraversate da un senso.
P.C. – Corriere Asia affronta principalmente temi di carattere economico e analizza la portata delle relazioni fra il business dell’imprenditoria italiana e il mercato asiatico. Siamo convinti però che tanto dell’economia dipenda da fattori di dinamismo culturale, sociale e perchè no anche da creatività e intuizione artistica.
N.B. – Penso che il percorso di una cultura proceda dalla profonda Via nella quale si sono rispecchiati gli infinti contributi di pensatori, filosofie, religioni. Questi “apparati viventi” hanno cesellato la geografia dei saperi e degli immaginari, imprimendo nel linguaggio, nel pensiero e nelle categorie ermeneutiche centri e sinapsi ereditabili come “tavole operatorie” pronte.
La straordinaria specificità nella quale è immerso il pensiero orientale, almeno per quanto attiene allo specifico dell’arte, è lucidamente affermato in “La grande immagine non ha forma” di F. Jullien: «Mentre il pensiero occidentale ha pensato soprattutto il rapporto tra la parte e il tutto e ha ricercato l’armonia derivante dalle proporzioni geometriche, facendo della forma l’oggetto principe della propria immagine, l’assunto centrale dell’estetica cinese è quello di abbandonare la forma esteriore per raggiungere la somiglianza interiore». Questa formula apparentemente incentrata sullo specifico della produzione d’arte, in realtà investe tutto il sistema di produzione orientale nel quale l’essere e l’avere, il singolo e la collettività, il privato e il pubblico, il sacro e il profano convivono in una osmotica continuità che difficilmente genera dualismi e lacerazioni. In altre parole, in Oriente permane quasi integro il ruolo della centralità dei flussi dell’esistenza, mentre le infinite proiezioni individuabili nell’imitazione di falsi eroi, di consumi indotti, ecc. difficilmente intaccano il senso della direzione dell’essere. In questo senso le grandi trasformazioni dello spazio magicamente convivono con le tradizioni di un complessivo senso di “compassione” nel quale ogni oggetto o essere vivente generosamente si offre ad alterità che abbandonano ogni colpa per palesarsi come parte del mondo fluttuante.
Nunzio Battaglia ringrazia Elena Radice per il supporto offerto nella revisione di alcuni contenuti condivisi per presente intervista.
La mostra fotografica di Nunzio Battaglia “JU-LU” è aperta al pubblico presso la galleria Fotografia Italiana in Corso Venezia 22 a Milano fino al 17 luglio.
Link Correlati
Paolo Cacciato
- Il sito ufficiale di Nunzio Battaglia – http://www.nunziobattaglia.it
- La galleria Fotografia Italiana – http://www.fotografiaitaliana.com/home.asp