Piazza Italia, quando l’eccellenza italiana fallisce in Cina.

PECHINO: Ne avevamo parlato anche noi di Corriere Asia oltre un anno fa in seguito all’inaugurazione di Piazza Italia, uno dei progetti più ambiziosi per la promozione del food made in Italy in Cina, assunto a simbolo di un programma di rilocalizzazione delle nostre eccellenze alimentari  ad un livello tale da essere presentato e referenziato dalla partecipazione nel capitale sociale da parte dello stesso Governo Italiano attraverso Simest.

Unknown ObjectUn’avventura che a seguito di evidenti tentativi di referenza mosse dalle alte cariche italiane, a partire dal Viceministro Urso fino al premier Berlusconi sembra aver raggiunto un punto di stallo negativo fino alla chiusura per debiti insoluti. 

Un flop che lascia spazio alla riflessione e che rimarca l’essenzialità di muovere in ottica cinese una linea di comunicazione che sia più funzionale e consapevole e non semplicemente "di grandi proporzioni": sottovalutare i meccanismi della macchina commerciale cinese può rappresentare un errore fatale, soprattutto in un periodo in cui in generale sui mercati asiatici le eccellenze alimentari nostrane non sono più acquistate in quanto puro e semplice "prodotto made in Italy". 

La notizia è sicuramente di rilievo ed è rimbalzata stamani sul web a partire dal sito Dagospia che ha introdotto la riflessione sul fallimento di Piazza Italia parlando di vero e proprio "disastro italiano". Al di là dei dati strutturali sull’operazione, è importante ricordare che ad Emanuele Plata,  presidente di Crai Beijing, società di diritto cinese dall’inizio preposta a gestione di Piazza Italia, è impedito secondo la normativa vigente di lasciare i confini cinesi fino al totale pagamento dei creditori in loco.  

Piazza Italia è partecipata per il 39% da Crai Beijing, società alle cui spalle ruota TAC (trading agro crai), sostenuta dal 2007 da alcuni nomi importanti del food italiano fra cui la catena di supermercati Crai, Consorzio Grana Padano, Cavit (produzione di vini), Conserve Italia, San Daniele Service (braccio operativo del consorzio del prosciutto), Frantoi artigiani d’Italia, Boscolo Etoile. Oltre a TAC fondamentale è il ruolo di Simest, piattaforma di’investimenti diretti sui mercati orientali partecipata per il 71% dal Ministero per lo Sviluppo Economico Italiano. Come dire che sul Flop della partecipazione privata inciampa in aggiunta e in dimensione ancora più echeggiante anche il pubblico. 

Dove ricondurre gli albori di una crisi ormai segnata e dalla cui risoluzione debitoria dipende addirittura la mobilità dei manager italiani ora bloccati in Cina? Sicuramente una struttura di 3600 mq su tre piani a Pechino ha un costo fisso notevole, sia di mantenimento che di valorizzazione e a solo più di un anno dall’inaugurazione l’investimento di TAC accumula debiti per quasi 4 milioni di euro. Tutto il business plan sembra non trovare più una ragione d’essere. I costi di produzione schizzano alle stelle, non paiono più riconfigurabili in una macchina di vendita in grado di sostenere i costi fissi. Nei due anni di attività si passa da quasi 400 mila euro di rosso fino a superare i 6 milioni di euro. E’ un caos manageriale più unico che raro se consideriamo la modalità con cui il concept è stato tanto osannato e presentato in veste "ufficiale" sia agli occhi di amministrazione cinese che di acquirenza. 

La lezione sull’importanza rivestita non solo dal "qualcosa" messo in moto nella macchina cinese ma "dal come" si intavoli business con la Cina e "chi" sia chiamato a mediarne il profilo commerciale appare nuovamente focale nell’esame di questo flop. Negli ultimi mesi abbiamo più volte sottolineato l’importanza di ricollegare l’attività di internazionalizzazione con quella di localizzazione. Una verità assoluta soprattutto in Cina, dove nomi, simboli e categorie se riconfigurate secondo sensibilità cinese "passano" e hanno successo, mentre l’originalismo e il particolarismo soprattutto se sovrastrutturati e mediati con troppa sicurezza, come spesso succede nella tradizione della promozione made in Italy all’estero, non solo appaiono sorde ma potrebbero configurare una reazione spiacevole ed etichettante.  Che sia stata anche una falsa sicurezza di Piazza Italia? Quello che è sicuro è che il mercatino all’italiana ha già chiuso bottega ancora prima di emergere con la reale appetibilità che la produzione nostrana potrebbe avere anche su mercati difficili e spesso poco abituati alle nostre "eccellenze" quali quello cinese.

Paolo Cacciato

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