Tori no Karaage, pollo fritto

Nella cucina giapponese tradizionale si è sempre dato molto spazio ad aspetti che nelle altre cucine sono di solito secondari o totalmente assenti, come ad esempio l’estetica minimale o i sapori appena percettibili e sfumati. Anche nei colori non si tende quasi mai allo sfarzo quanto invece al rappresentare, artificialmente, la natura e le sue stagioni, per stimolare un appagamento mentale ed estetico prima ancora che fisico. Le piccole porzioni, i sapori leggeri, il vasellame e gli accessori perfettamente in armonia con il cibo che contengono o con la stagione in cui vengono utilizzati, sono ad esempio una caratteristica fondamentale della Kaiseki Ryori, un particolare modo di cucinare ma anche di servire e gustare alcune pietanze sviluppatosi lungo tutta la storia del Giappone ma con particolare canonizzazione nei periodi Kamakura e Edo dove l’estetica e la raffinatezza erano elementi imprescindibili di ogni arte. La cucina Kaiseki, sempre a base di pesce e crostacei accompagnate da verdura e frutta di stagione, viene servita in una serie di piccole porzioni con sequenze e modalità prestabilite.

 

Per quanto interessante e sicuramente buona, è una cucina che per essere “vissuta” correttamente richiede una preparazione sia da parte di chi la offre che di chi la riceve ed è quindi assimilabile ad altre arti o discipline, come ad esempio la cerimonia del tè secondo i canoni del Sado (appunto il nome della disciplina che regola i canoni della cerimonia del tè) dalla quale deriva.

Nel libro “Ryokan – l’arte dell’ospitalità nel Giappone tradizionale” di Gabriele Fahr Becker – Ed. Konemann, si prendono come pretesto quattordici Ryokan, ossia le locande tradizionali giapponesi, per un interessante viaggio nelle tradizioni del Giappone, dalle usanze all’architettura, dai ciliegi ai kimono, compresa ovviamente la cucina Kaiseki.

Da questo interessantissimo e bellissimo libro pieno di fotografie e informazioni, che sembra non venga più stampato ma che ancora è reperibile in alcune copie nelle librerie nelle sezioni Fotografia o Architettura (scovatelo e compratelo prima che finiscano tutte le copie in giro!) volevamo in particolare, per riallacciare il discorso degli ultimi articoli sull’importanza delle parole e dei loro significati e perché si tratta di cucina tradizionale, riportare un passo molto indicativo e a nostro avviso interessante:
“…Un pasto Kaiseki non consiste tuttavia semplicemente in una determinata sequenza di portate, ma è regolato da una serie di norme che vanno osservate per evitare situazioni spiacevoli, in particolare le seguenti: un giapponese attento alla tradizione non servirà mai una o tre parti di una pietanza perché hito-kire (hito:uno; kire:pezzo) significa anche “uccidi qualcuno” e mikire (mi:tre; kire:pezzo) ha diversi significati, tra i quali “uccidimi” (in questo caso “mi” significa “persona”, mentre “kire”, imperativo del verbo uccidere, equivale a “uccidi te stesso”). E’ considerato pertanto un presagio nefasto ricevere una o tre parti di una portata; due o quattro si possono invece offrire senza problemi, ma anche quattro fette hanno un brutto significato: quattro si dice “shi”, come “morte”, ed è generalmente considerato un numero che porta sfortuna e che di conseguenza i giapponesi cercano di evitare.”

Nota di D&Y: in realtà il termine Kire (da Kiru) non significa letteralmente uccidere ma tagliare, che nel linguaggio Samurai era ovviamente sinonimo di uccidere visto che ogni singolo colpo di spada era finalizzato all’uccisione e non al ferimento dell’avversario. In pratica per dire “ti uccido” si diceva anche “ti taglio”!
Questa è la copertina del libro
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Prima di passare alla ricetta della settimana (che però non è Kaiseki Ryori!) vi diamo anche un piccolo consiglio pratico che vi potrebbe tornare utile qualora voleste cimentarvi (noi lo speriamo sempre) con la pratica delle nostre ricette:

Una regola di cucina molto importante che riguarda le fritture in genere e che potete applicare sia alla ricetta di questa volta che a tutte le ricette (giapponesi e non!) che prevedono la frittura di qualcosa:
Quando butti qualcosa da friggere nell’olio caldo, se arriva sul fondo e ci rimane significa che la temperatura è inferiore ai 150°C e quindi insufficiente a friggere nel modo corretto.
Quando sale subito a metà del liquido invece significa che la temperatura dell’olio è compresa tra i 150/160°C e i 180°C ed è la temperatura ideale per friggere.
Quando invece rimane direttamente in superficie ed inizia subito a friggere significa che la temperatura dell’olio è superiore ai 180°C (solitamente circa 200°C, temperatura oltre la quale inizia a bruciarsi l’olio stesso) ed è una temperatura troppo alta per cuocere anche all’interno il cibo che vogliamo friggere che a causa dell’alta temperatura si friggerà velocemente solo all’esterno lasciando crudo l’interno.

Tori no Karaage – Pollo fritto

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Ingredienti:

Un cosciotto di pollo
2 spicchi di aglio
1 porro
3 cucchiai di shoyu
2 cucchiai di sake per cucinare
1 cucchiaio di mirin
3 cucchiai di farina
3 cucchiai di fecola di patate
olio di semi

Preparazione:

Disossare il cosciotto di pollo (come nella ricetta dell’Oyakodon) e tagliarlo in bocconcini.
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Tagliare l’aglio in fettine sottili e il porro in rotelline di circa due centimetri di spessore.

Preparare un recipiente dove mettere 3 cucchiai di salsa di soia Shoyu, due cucchiai di Sake per cucinare e un cucchiaio di Mirin. Mischiare e aggiungere le fettine di aglio e le rotelline di porro.
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Aggiungere i pezzettini di pollo nel recipiente con il condimento appena preparato badando che i bocconcini siano coperti completamente dal liquido. A questo proposito la scelta del contenitore dovrà tenere conto anche di questa esigenza ed essere quindi della misura adatta in proporzione alla quantità di liquido che ci dobbiamo versare. Nella foto abbiamo usato per comodità una vaschetta per alimenti in polistirolo di quelle che nei supermercati vengono usate per confezionare la carne o la frutta.

Lasciare il pollo nel liquido per due ore minimo in modo che il condimento entri nella carne e si insaporisca a dovere.
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Mischiare in una bustina tre cucchiai di farina e tre cucchiai di fecola di patate.

Mettere sul fuoco un pentolino con dell’olio di semi a scaldare.

Nella bustina con la farina e la fecola di patate mischiate insieme, introdurre uno alla volta i bocconcini di pollo prendendoli, umidi, direttamente dal recipiente con il condimento. Agitare la bustina in modo che tutta la farina e la fecola ricoprano il pezzetto di pollo e aderiscano alla sua superficie.

Ogni pezzetto di pollo andrà messo nell’olio per essere fritto. Come abbiamo già detto altre volte è necessario fare attenzione e introdurre i pezzettini piano piano nell’olio per evitare incidenti. Non friggere troppo a lungo per evitare che la salsa di soia che abbiamo usato per insaporire il pollo si bruci rovinando tutto.
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Ogni pezzetto fritto, dall’apparenza croccante e quindi pronto, verrà posto poi su della carta assorbente per assorbire l’olio in eccesso.

Quando tutti i pezzetti saranno fritti, il Tori no Karaage sarà pronto da servire, meglio se ancora caldo.
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Una nota per il condimento: purtroppo non c’è modo di utilizzare ancora tutto il condimento che rimane nel recipiente, essendo troppo forte per condire delle verdure o altri tipi di carne come il petto del pollo o il manzo (per due ore ci abbiamo tenuto a mollo il cosciotto di pollo che ha un sapore troppo forte). Unica eccezione per la carne di maiale che ha un sapore sufficientemente forte per questo tipo di condimento. Può essere lasciata un po’ meno tempo a mollo nella salsa e poi si può ripetere il procedimento del Tori no Karaage per la frittura. L’ideale, come si usa anche nella cucina cinese, è poi mangiare il tutto accompagnato da una salsa agro-piccante.

Alla prossima!

 

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